La variegata essenza femminea di (WW) We Women
Una danza tutta femminile a Fabbrica Europa 2016
Si apre con la danza contemporanea quest’anno il Festival Fabbrica Europa alla Stazione Leopolda di Firenze, quella di quattro coreografe (Sol Picó, Julie Dossavi, Minako Seki e Shantala Shivalingappa) provenienti da paesi diversi (Spagna, Africa, Giappone, India) insieme alle musiche composte e interpretate dal vivo da Adele Madau, violinista di origine sarda, e le spagnole Lina Léon e Marta Robles al flauto e alla chitarra e su drammaturgia di Roberto Fratini.
Perché partire da un elenco di crediti per (WW) We Women? Perché già sottolinea il melting pot di cui tutte le protagoniste sono testimonianza e artefici per uno spettacolo meticciato tra generi e sottogeneri, culture e subculture, plurilinguaggi espressivi e afonie verbali tutt’intorno a sette donne e al loro esserlo.
Un’essenza femminea mutante, mutuata, ammutolita da questioni d’identità e di genere che sembrano portare la donna sempre sull’orlo di una fine fin quando il corpo non riuscirà di nuovo a farsene beffa. È proprio il movimento di questo corpo a custodire e rilanciare quell’élan vital di cui la pelle sembra l’ultima frontiera: da lì può riverberare e lì può morire, ma non fermarsi.
Terra brulla su tutto lo spazio, una tenda accampata dentro cui si muovono piccole luci indici di presenze umane che pian piano escono dando l’avvio di (WW) We Women mentre noi iniziamo a guardarle con la stessa incertezza di quando la mattina ci guardiamo per la prima volta allo specchio e non sappiamo che piega prenderà la giornata.
Saranno danze e musicalità senza trucco e senza tregua da cui non aspettarsi nulla ma stando pronti a tutto. Non è una boutade, è l’augurio di una vita.
Dalla tenda, che si trasformerà anche in tana e focolare domestico, in spazio per le tre musiciste, in cabina per una consolle motivazionale o in lanterna magica per le luci e le ombre sulle banalità quotidiane o del male, le sette donne sfileranno verso quel che può diventare una doccia rinfrescante, un bagno di folla, una fonte cui riapprovvigionarsi o una vita che fa acqua da tutte le parti. Eppure è solo un fascio di sabbia che cade dall’alto di un angolo.
Camminano e danzano con i tacchi, svestite come pin up sgualcite su un rotocalco postatomico e che avvertono la reciproca presenza. D’ora innanzi momenti corali e scene individuali si faranno serratissimi tanto da non accorgersi talvolta come e quando creature vermiformi dentro tute sgargianti anni ’80 siano diventate neo-amazzoni di moderne palestre per poi tornare a pulire il pavimento da quella terra su cui prima si era strisciato ma che poi era diventata anche scena di una lapidazione.
Ogni corpo è depositario di una storia e ognuno vorrebbe raccontarsi o almeno raccontare l’essere woman ma l’incomprensione o la sfuggente relazione è dietro l’angolo e non fa che generare gag e solitudini dentro un codice sconvolto degno di una pellicola di Almodovar che ci lascia inermi e talvolta estranei. Gli incanti mai banali e sapienti della danza indiana, il celebre e letteralmente incredibile flamenco danzato sulle scarpette a punta dalla coreografa Sol Picó, la violenza e la disciplina dello scontro atavico tra Julie Dossavi e Minako Seki rischiano di essere un durante tra un prima e un dopo di continue accumulazioni e deviazioni che così possono diventare formula.
È come se la stessa struttura dello spettacolo, infatti, fosse il suo peggior nemico: una ricchezza e una versatilità disarmanti che si volatilizzano intorno ad un centro (drammaturgico) non solido che talvolta crea brusio ed altre parla, talvolta brucia e talaltra viene bruciato rischiando di disperdere il proprio sapere e sapore. Di una danza, di una musica, di una vita.
Stazione Leopolda, Firenze – 5 maggio 2016