L'australiano Mick Taylor (John Jarratt) sembra una persona come tante. Uomo di una certa età, curioso ibrido fra John Wayne e Gene Hackman dalla presenza imponente e grezza, ma, almeno sulle prime, piuttosto affabile e cordiale. Tuttavia, sullo strano sorriso che gli capita di sfoggiare si stende inquietante la traccia di un ghigno, malefico barlume del mostro profondamente radicato in lui che non fa concessioni a nessuno.
Sangue e morte sono infatti due parole chiave nella vita di quest’uomo solitario, che quando non caccia maiali per lavoro, si diverte con furiosissima cura a torturare e uccidere buona parte delle persone che incontra nel suo cammino. Perennemente in giro nello sconfinato entroterra australiano col suo furgone e accompagnato dal suo fidato e letale black humour, Mick elimina chiunque osi intralciare i suoi piani e si fermi nelle sue terre, come accade a una giovane coppia di turisti tedeschi che decide di trascorrere la notte in tenda nello sterminato e isolato Wolf Creek National Park.
Dopo quasi dieci anni Greg McLean riprende in mano il suo film culto Wolf Creek ispirato a fatti realmente accaduti e riattiva senza pietà la macchina infernale di Mick Taylor, affidando alla sua figura vagamente simile al Freddie Krueger di Nightmare il compito di incarnare l’idea del male e della morte.
Grande complice delle brutalità autocompiaciute del protagonista è lo spazio, che, attraverso campi lunghissimi, il regista disegna sapientemente come un mostro di indifferenza leopardiana e distesa interminabile di insidie per le vittime: ogni luogo, che sia rappresentato dalla vastità della natura incontaminata o da intricatissimi sotterranei pieni di cadaveri e strumenti di tortura, è sempre e inevitabilmente dalla parte del serial killer.
Il film, allora, fra il road movie più spericolato e l'horror puro, diventa un'esperienza estenuante e conflittuale che da una parte tiene in perfetto allenamento lo spettatore per la sua altissima dose di tensione, mentre, dall'altra, a causa delle non poche sequenze insostenibili, gli fa desiderare che lo spettacolo, per quanto registicamente ben orchestrato, finisca il prima possibile.
Rifacendosi a pellicole come Duel di Spielberg, Le colline hanno gli occhi di Craven e Non aprite quella porta di Hooper, il regista vizia alla perfezione il pubblico più morboso con un’elevata percentuale di gore, senza però rinunciare a mettere in campo una serie di riflessioni di varia natura, a partire da quella sulla Storia: fra uno strato di sangue e l'altro Mick è infatti visto anche come l'emblema (impazzito, malato, ormai irrecuperabile) di un forte rancore verso i soprusi del colonialismo nei confronti degli aborigeni. Illuminante, in questo senso, la lunga sequenza in cui l'assassino, nel suo bunker, impone a una vittima britannica un sadico quiz sull'arrivo letale dei coloni inglesi in territorio australiano durante la seconda metà del Settecento.
E se è vero che Mick Taylor è invincibile ed eterno proprio come il Male (che rappresenta), c'è forse da aspettarsi da parte di McLean un nuovo, terzo, capitolo di Wolf Creek, prospettiva assolutamente auspicabile se il cineasta continuerà a mantenere livelli stilisticamente così soddisfacenti.