Wilco @ Fabrique (MI)
Mai stati sotto il porticato di casa del Midwest di Jeff Tweedy?
Al Fabrique questa volta sembra di star a teatro: la scenografia ti strappa dalla realtà e ti conduce in una macchia autunnale. Non cadono le foglie, ma negli occhi tutti traspaiono delle voglie: una birra, tagliare l’attesa e iniziare, essere cullati dalla musica. La superband folk USA è pronta a sbriciolare i cuori dei classic rockers. Ore 21 e qualche minuto, come degli svizzeri che han chiesto asilo di puntualità, Jeff Tweedy & Co sono saliti sul palco. L’affetto negli applausi di saluto del pubblico fa trasparire una cedevolezza d’animo di Jeff. Le sue codine da pellerossa, la t-shirt a righe bianche e blu sotto un giubbetto in jeans, il suo copricapo da cowboy e quei chili in più raccolti negli ultimi anni (che sembra stia perdendo), gli stringono così il petto che suona con un innamorato sorriso le prime note.
Non ce la fa a trattenersi, si sa che è un Obama amico. E all’indomani della neo elezione di Trump, dopo la prima Ashes of American Flags si scuce «Vorrei rendere omaggio alle ceneri delle bandiere americane» con una mano sul cuore «We’re gonna be alright! Ora più che mai bisogna essere attivi». E poco dopo: «Tutti quelli che conosco in America si guardano e si chiedono “cosa posso fare?” Chiederselo è una gran cosa. Tutti si stanno chiedendo come impegnarsi e come proteggere la parte più debole della società.»
Alcuna pesantezza, sia chiaro, la valvola di sfogo lascia subito il campo alla musica. Tweedy punta l’occhio di bue su Normal American Kid, che dopotutto lo rappresenta, «ho sempre avuto paura di essere un normale ragazzo americano». Tratta dall’undicesimo lavoro in studio Schmilco, che li porta in una tournée bollata però Star Wars Tour (del precedente disco), è una delle storie di session accantonate negli anni e divenute, in seguito, carezze da cielo stellato per proteggere quella Mermaid Avenue sempre assetata di cuori da sgretolare. Banjo, steel, batteria, assoli di Nels Cline, incroci di tre chitarre con Pat Sansone che non si tira indietro, Impossible Germany in una scaletta trasognata, mai una sbavatura vocale. Nashville in quel di Milano, a Barona. Perché smettere di fantaticare?
Niente, si esce così. Con “pa-pa-pa-pappa-pa-pa-pappapààà” in testa, la voglia matta di avere sotto i piedi i pedali di una Cadillac Eldorado del ’52, una Martin M-38 nei sedili posteriori e il pensiero fisso di aver vissuto uno dei migliori concerti italiani della band, suddiviso perfettamente in due metà. La prima, con un tifone di corde elettriche; la seconda, come una jam sotto un porticato di una casa del Midwest in una calda serata autunnale.
«Cosa posso fare?» si chiedeva Jeff all’inizio. Cosa? Hai fatto lo sporco lavoro Jeff. Ci hai lasciato tutti trasognanti in un bosco incantato. Non potremmo chiedere di più.
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