While we are holding it together – Ivana Müller
Cinque persone, ferme, immobili, fissate in una posa da cui non possono evadere. Attorno niente che racconti qualcosa di loro: è come una vecchia foto di cui è andato sbiadito lo sfondo, cinque figure scollate dalla realtà delle quali si è perso completamente il ricordo. Cosa debba esserci «dietro» non è dato sapere; lo si può immaginare però, creare una storia, uno spazio, addirittura un tempo. Un po’ come accadeva sulla Settimana Enigmistica: un quadrato bianco e due tratti appena – inventate voi la scena.
È così che i singoli personaggi cominceranno a disegnare con il pensiero-parola nuovi contesti: un concerto rock, il Lincoln Center, un albergo thailandese, la foresta di Sherwood, immaginando ogni volta un ruolo diverso che giustifichi la loro comica – poiché inverosimilmente statica – posizione. Eppure poco a poco, quella fantasia di scenari lascia emergere anche qualcos’altro, paure, incertezze, il disagio chi è immobilizzato in una smorfia che non riesce a cancellarsi dalla faccia. Ecco allora che nella performance si irradia l’ambiguità racchiusa nel titolo – While we are holding it together – giocata appunto sulle diverse sfumature di hold: se da un lato il verbo rinvia al «mantenimento» della posizione, dall’altro suggerisce il «sostenere-sopportare» reciproco di un peso che blocca tutti, che tiene tutti fermi (forse anche il pubblico stesso). E infine quel while che incide la barriera invisibile tra palco e platea, tra noi e gli altri, tra il sé e l’immagine di sé, in una temporalità che richiama l’esistere: mentre siamo qui a sostenere tutti assieme questo peso, che si fa?
L’espediente adottato insomma è chiaro e non nasconde il suo limite, tuttavia la coreografa croata Ivana Müller tenta di partire proprio dalla contrazione del limite per indagare i diversi aspetti che può richiamare un tale immobilismo: c’è l’immaginazione che non si ferma all’apparenza delle cose e quella che invece reinventando la realtà si sottrae alla scoperta del mondo, così come c’è il dramma della maschera senza volto che pur soffre e quello della voce azzittita che riesce a esprimersi solo quando impara ad ascoltare, ad accogliere in sé l’altro.
Le letture possibili sono molte e ognuna a suo modo stimolante, però forse è proprio in questa evocatività svincolata che si cela il vero limite dello spettacolo: superata la soglia dell’ora si avverte l’impressione che dalla performance poteva emergere di più.
La Pelanda, Roma – 11 settembre 2014