La malattia incurabile del Teatro
Vocazione di Danio Manfredini
Cos’è il teatro se non malattia incurabile, «puntura dell’assillo» – per dirla alla Edoardo Cacciatore – eterna coazione a ripetere di un continuo disvelamento di sé stessi? Lo sa bene Danio Manfredini, che in Vocazione porta in scena una riflessione sulla condizione stessa dell’essere attore, partendo proprio dall’origine: da quell’inclinazione naturale e ingiustificata verso il teatro, per cercare di capire cosa sia, da dove venga, e come sia possibile ricomporne tutti quei frammenti impalpabili che la costituiscono.
Per fare questo, non si può far altro che interrogare il teatro stesso. In abiti da barbone, accompagnato dalle note di Pagliacci di Leoncavallo – «Recitar! Mentre preso dal delirio,/non so più quel che dico,/e quel che faccio!» –, Manfredini si presenta in scena come il protagonista di Minetti di Bernhard, un attore anziano il cui unico conforto consiste nel recitare il Re Lear. Ed è questa la sua operazione: entrare ed uscire con agilità dai capolavori del teatro e del cinema, che sia una fragile Nina del Gabbiano di Čechov immersa nel rumore del mare, l’attoruncolo provinciale di Servo di scena di Harwood, o quello frustrato che lascia la compagna trans Elvira/Edwin in Un anno con 13 lune di Fassbinder.
Storie di falliti, emarginati, alla disperata ricerca di consenso da parte di un pubblico che in fin dei conti rimane un’astrazione: perché alla fine, quando le luci si spengono, il dramma è che si rimane da soli, come nello struggente Canto del Cigno di Čechov. Il filo rosso che lega questo collage drammaturgico – intervallato dagli à part più ironici e autobiografici di Manfredini – è quindi quel cortocircuito fra arte e vita i cui confini sono pericolosamente confusi. La vocazione teatrale si configura così come una forza oscura, indomabile, cui si è destinati a soccombere. Per un attore, non è che l’inizio della fine.
Ad accompagnare Manfredini sul palco c’è Vincenzo Del Prete, molto più di una spalla, ma compagno complice e reattivo a ogni battuta, che restituisce con vigore e ne amplifica il senso. In ogni scena c’è una maschera irreale ad alterare i loro volti, un cambio d’abiti mostrato che non pone limiti al gender, una peculiare modulazione della voce e del corpo che si modellano sui vari personaggi di questo omaggio intimo e spassionato all’arte dell’attore. Questo aspetto, proprio in virtù della sua natura, potrebbe trasformarsi anche nel punto debole dello spettacolo. Il rischio infatti è quello di rimanere intrappolati dietro le sbarre autoreferenziali di quella “prigione” che è il teatro, con la difficoltà che ne consegue di coinvolgere a livello emotivo chi non è addetto ai lavori o appassionato.
Alla fine di Vocazione, Manfredini prende le sembianze di una signora in abiti succinti e alette rosse di angelo, come a dire: il teatro è una «puttana». E in effetti recitare è un atto «osceno» perché vuol dire fare dono di sé. Ed è quello che fa Manfredini, come artista e come uomo. Dentro di lui ci sono tutte le ore di lavoro, il sudore, le frustrazioni, le speranze e i tormenti di un teatrante; c’è la ricerca e la cura di un’ossessione primaria che si rinnova ogni giorno. C’è il teatro, nella sua effimera eternità.
Ascolto consigliato
La Pelanda, Roma – settembre 2015