La mollezza dell’inerzia
Lucia Calamaro e le ossessioni de 'La Vita Ferma' al Festival Inequilibrio
C’è uno stallo creativo nel nostro teatro di ricerca? A voler essere pacati, potremmo dire che si avverte una certa stanchezza.
Certo, la situazione contingente non aiuta: la recente sentenza del TAR e la successiva sospensiva, ad esempio, sembrano confermare i dubbi già forti sulla riforma del FUS e destano nuove preoccupazioni sulle conseguenze che ne deriveranno; ciò detto, però, l’Arte dovrebbe pur nutrirsi di crisi, cavalcarle, immergervisi, non temerle, non assecondarle remissivamente. Ultimamente invece è un rincorrersi di spettacoli «interessanti», «carini», «non male dopotutto», perché certo nessuno vuole accanirsi, però si fatica sempre di più a sorprendersi un po’ senza se e senza ma.
Anche in una roccaforte della qualità come Armunia – che sta subendo di fatto una restrizione di autonomia, motivata con le solite argomentazioni passepartout politicamente corrette («investimento a favore del territorio»), che dimostrano ancora una volta la miopia e l’ingratitudine culturale, più che la sprovvedutezza, della politica -, dicevamo, anche a un festival d’eccellenza come InEquilibrio, si notano, a giudicare dai primi due giorni, segni di fragilità creativa. In primis, drammaturgica.
Ovvero: di cosa si parla? e come se ne parla? e perché se ne parla in quel modo e non in un altro?
Di sicuro c’è che si parla. E si parla. E si parla. Si parla davvero tanto sul palco. Forse anche troppo. Una verbosità che denota una certa insicurezza, egotismo, agorafobia sociale, insomma mancata esposizione. E se l’artista è troppo barricato in sé stesso inevitabilmente poi il contatto viene a mancare.
Caso emblematico il nuovo spettacolo di Lucia Calamaro, La vita ferma, di cui sono stati presentati in forma di studio i primi due – di tre – atti.
Come affrontare la morte? Come ordinare i ricordi? Lui è uno storico, lei (era) una danzatrice, e poi c’è Alice, la loro bambina che torna a ricordare da adulta. La scena è spoglia, bianca di sospensione: man mano che il passato riaffiora va costellandosi di ricordi. Riccardo Goretti (ex Omini), Simona Senzacqua e Alice Redini si spendono moltissimo, struggenti nella loro normalità; senza mai scadere nell’affettazione drammatica mantengono una leggerezza ironica, sensibile, arruffata, umana. Tuttavia, nonostante lo spessore attoriale e psicologico, La vita ferma finisce per patire la sua stessa ossessione: il controllo.
Ciò cui si assiste è lo spaccato emotivo-nevrotico di una famiglia alquanto radical chic, sicuramente tenera e scanzonata ma anche molestamente acculturata, che ha bisogno di citare per esprimere i propri sentimenti, che deve filtrare tutto attraverso la cultura codificata, in cui persino un maldischiena rischia di diventare un gancio per evocare l’Angelus Novus di Benjamin.
Un cólto chiacchiericcio autoironico che ricorda i primi Allen o Moretti; regala picchi, sì, ma anche lunghi minuti di insofferenza, sempre teso com’è – il testo – a dover dire tutto, a dover spiegare tutto, a dover affermare tartagliare smussare autocorreggersi canzonarsi riavvitarsi a molla, a discapito di un “cosa” che si dichiara evidente fin dalle prime battute e che l’evoluzione non arricchisce poi di spunti particolari (per un diverso sguardo critico, segnaliamo l’articolo di A.M. Monteverdi – clicca qui – e il post di A. Scarpellini – qui).
Espressa l’emozione spontanea iniziale, il troppo parlare finisce per accomunare i tre personaggi schiacciandoli in una stessa mania ossessiva compulsiva – intellettualoide, delicata, paranoica, fragile. Come un Oblomov dormiente preferiscono parlare che agire, non si espongono mai al reale, sono troppo affezionati – pur teneramente – alle loro paure: sbagliano come vogliono loro, quando vogliono loro. Per questo una forza indomabile come la morte li schiaccia tanto.
E certo se la disaffezione culturale è aumentata in questo Paese è anche perché una certa sinistra (di semplice destra in Italia non se ne vede dai tempi di Cavour) ha finito per smarrirsi nelle sue stesse vertigini intellettuali, preziose sicuramente, sia chiaro, ma forse sempre più distanti dall’accidentalità della vita.
Il testo di Lucia Calamaro è un brillante spaccato, anche autoironico, del nostro tempo, ma non riesce a smarcarsi dall’ansia del riempire, risentendo delle stesse debolezze che rappresenta. Manca il vuoto. Manca l’ascolto.
Ascolto consigliato
Inequilibrio, Teatro dell’Ordigno, Vada (LI) – 29 giugno 2016
In apertura: Rudolf Schlichter The rooftop studio, 1922 ®Galerie Nierendorf, Berlino