Vinicio Capossela: un nome, una garanzia. Garanzia di successo anche oltre la specifica riuscita complessiva dell’opera, grazie a un seguito consolidatosi nel tempo e pronto ad osannare preventivamente il proprio mito. È successo puntualmente anche ieri sera a Pordenone, dove il sold out ha assistito alla presentazione dell’ultimo album, Marinai, profeti e balene, già osannato da seguaci e addetti ai lavori che gli hanno tributato il premio Tenco quale miglior album del 2011.
Chi scrive si è avvicinato al profeta da novizio, curioso e vorace di proposte che sappiano parlare al cervello e al cuore con linguaggi diretti, attuali, ma allo stesso tempo non vincolati alla contemporaneità che predilige il pre-confezionato, il veloce, il superficiale. Quello proposto dal geniale cantautore è un percorso, vero e proprio viaggio, attraverso l’oceano a bordo di una nave popolata da ultimi, scarti della società della perfezione ostentata. L’ambientazione, mitologica e fiabesca al tempo stesso, è l’interno di un torace di balena, le cui costole avvolgono strumenti e musicisti-marinai; luci e retroproiezioni creano suggestioni marine, flussi di correnti e movimenti di piante acquatiche.
Tutto bello, anzi bellissimo, completato da personaggi ed elementi di arredamento (reti, bauli…) che sporcano il quadro, quasi fosse una cambusa marcia e graveolente. Senza dimenticare i costumi sgualciti, i capelli spettinati, le trasformazioni mascherate in animali/abitanti marini (il polpo, la sirena, Polifemo…). Sembrerebbe esserci tutto: follia, caos apparente (studiato nei minimi dettagli), genio profuso… eppure c’è qualcosa che stride fortemente.
Lo spettacolo è ostaggio di frequenti alti e bassi musicali, troppo orgiastico e indeciso tra minimalismo/essenzialità cantautorale e spettacolo circense, preda di problemi tecnici che rendono spesso incomprensibili i testi cantati da Capossela, travolti dalla selva di sonorità di accompagnamento.
Si resta sbalorditi, all’apertura del sipario, dalle atmosfere che emergono dall’abbinamento carrozzone-piano solo-voce-luci e dalla terza canzone, Billy Bud, un intensissimo e coinvolgente blues, una prison song da brividi. E ci sono altri momenti significativi: le note e le roche parole di L’oceano oilalà (rollin’ the whale), la divertente Polpo d’Amor, la toccante Lord Jim e la cupa La bianchezza della balena.
Ma resta la sensazione di una eccessivo e affaticante intellettualismo, una certa farraginosità, una ripetitività di alti e bassi che non rende giustizia al reale valore dell’idea originale; e resta il dubbio che questa dimensione artistica e questi brani siano realmente ricchi, ma vadano ascoltati nella concentrazione del disco (il vinile sarebbe eccezionale per questo mood) in modo che possano generare una personale visione evocativa in ognuno di noi.