‘I Vicini’ e la paura inconfessata del confronto
Paravidino varca la soglia del non-detto
C’è una storia di cronaca nera che ha riempito le prime pagine dei giornali per la sua efferata brutalità, la strage di Erba. Protagonisti, Olindo e Rosa, i vicini che mai nessuno vorrebbe avere. La coppia architettò l’assassinio dei loro dirimpettai, massacrò Raffaella Castagna, il figlioletto Youssef e la nonna Paola Galli. Il motivo? Facevano troppa confusione. E poi c’era stato l’episodio delle aiuole. Olindo e Rosa avevano detto più volte di stare attenti ai fiori, di non calpestarli, ma niente i vicini non lo volevano capire. E così la soluzione migliore è stata quella di eliminarli. Cancellare per sempre il tassello che scombina la costruzione di una fortezza sicura e stabile, distruggere l’estraneo che destabilizza l’ordine delle cose: proprio lì, sotto al tuo naso, dietro la porta di casa tua.
Entrando nella casa dei Vicini di Fausto Paravidino (scene Laura Benzi), si ha immediatamente l’impressione che qualcosa arrivi per destabilizzare, per rompere per sempre l’equilibrio di una coppia. Lui (Paravidino) è l’uomo moderno che sta a casa mentre lei, Greta (Iris Fusetti), va al lavoro. Eccoli, sono loro i vicini, i “destabilizzatori”, gli inquilini della porta accanto con le loro idee strambe. Se in più ci aggiungiamo una strana presenza, forse il fantasma di un’anziana signora (Barbara Moselli), possiamo capire come il testo sia costruito su una tensione da thriller. Gli elementi della scenografia aiutano ad alimentare questa suspense: porte che sbattono, finestre che si aprono all’improvviso, fantasmi che appaiono nel buio (luci Lorenzo Carlucci, musiche Enrico Melozzi. Tutto costruito a puntino.
L’essenza dello spettacolo tuttavia si cela nella contrapposizione ideologica e sociale delle due coppie, speculari l’una all’altra, costruite su stereotipi contrari dai cui nasce la sostanza dell’azione teatrale: lo scontro tra il mondo moderno della prima coppia e quello dei vicini (Davide Lorino e Sara Putignano), tradizionale, fatto dall’uomo che comanda e dalla donna che ubbidisce. Un modo di intendere la famiglia, obsoleto, che fa ridere; ma cosa veramente è giusto? Il marito di Greta, castrato nella sua virilità da una donna che porta i pantaloni in casa; o quello degli altri, degli estranei?
Pacchiani, come i vestiti che indossano. Scorretti, eppure liberi di potersi permettere anche qualche serata particolare all’insegna di sculacciate masochiste che risvegliano l’istinto virile di lui. Per loro sarà l’inizio della fine. Da quella sera i ruoli si invertono, le certezze vengono infrante, infine il rappacificamento, voluto da quella strana presenza altra.
I dialoghi scritti da Paravidino funzionano, regalando attimi di ilarità, così come funziona il personaggio che egli si è cucito addosso, una sorta di Woody Allen tapino che ancora non ha fatto i conti con la propria virilità: un uomo “moderno”, vittima dell’emancipazione femminile, teneramente vigliacco. Una messa in scena efficace, che a volte però perde di ritmo, allentandosi all’inizio per poi miracolosamente riprendersi in qualche scena più serrata.
I vicini nello spettacolo rappresentano insomma la parte oscura della nostra anima, quella che abbiamo chiuso in una stanza segreta del nostro essere. Aprire la porta che ci divide da essa significa affrontare mostri e paure che nemmeno sapevamo di avere. Ma a volte bisogna trovare il coraggio di aprirla, quella porta, anche se ad aspettarci ci saranno Olindo e Rosa.
Letture consigliate:
Il diario di Maripa Pio Fausto Paravidino, di Giacomo Lamborizio
Due Fratelli, un’epoca e il suo tormento. Il testo di Paravidino Premio Riccione ’99, di Adriano Sgobba
Ascolto consigliato
Piccolo Eliseo, Roma – 13 aprile 2016