Nella quiete del tramonto sottili linee luminose s’intrecciano sul palcoscenico incastonato tra le mura romane di Villa Adriana, mentre la musica e le voci-oracolo dei fratelli Mancuso graffiano l’aria palpabile di una Corinto bruciata dal sole, assetata, desolata, morta. Sterile come il coro di donne in abiti neri interpretate da cinque uomini (Carmine Maringola, Salvatore D’Onofrio, Sandro Maria Campagna, Giuliano Scarpinato, Davide Celona), cinque ventri incapaci di contenere la vita che realizzano solo con la fantasia e a parole il desiderio di maternità.
Gli occhi perforano la densità arcaica e ruvida creata dalla carezza cruda, spietata e disarmante di Emma Dante. Le sue mani plasmano una Medea che è femmina prima che donna, palpitazione di viscere e sangue prima che essere umano, animalesco istinto di seduzione, prima che madre, pulsione genitale prima che genitore. Gambe, braccia, mani, volto, bocca, occhi: frammenti di carne contorti negli spasmi voluttuosi e dolorosi del travaglio, parti di corpo – quello di Elena Borgogni – trasudanti l’odore di una fecondità bruta, barbara, schiacciata, oppressa dal peso della gestazione.
Come una vedova nera, Medea tesse nella sua tana i fili dell’inganno, attrae Creonte (Salvatore D’Onofrio) strofinando la sua figura nera macchiata di rosso – concentrata nelle scarpe con tacco – che inarcandosi sulla schiena trasforma l’addome gravido in gonfio opistosoma, cattura Glauce – evocata dal messaggero (Sandro Maria Campagna) – nella ragnatela di peplo bianco che brucia le carni, digerendola dall’esterno, incanta Giasone (Carmine Maringola) egocentrico opportunista consumato dalla bramosia di potere – con una danza di contatti mancati, di baci velenosi, di sguardi pulsanti di rancore.
Nel teatro di Emma Dante ogni oggetto, ogni costume, ogni minima presenza parla un linguaggio preciso: così quell’acqua che Medea si getta addosso lucidandosi le membra si trasforma nei resti del sacco amniotico che si riversa a terra in una viscida pozza, così la spessa coperta colorata assume tra le braccia cullanti delle donne e dei genitori la forma di un corpicino in fasce, di un figlio. Simbolica speranza di vita della quale non resta che l’immagine arsa negli occhi del padre, vittima dell’orrore della genitrice che sradica dal suo petto la grazia e la tenerezza materna, soffoca il dolce canto in maligne risa, spezza l’esistenza umana condannando(si) a un lenta attesa di morte, e a noi che guardiamo strappa anima e cuore, lasciandoci come personaggi vuoti immersi nel silenzio della notte, come ombre senza volto.