Si fa chiamare Mark, ha un'età fra i trentacinque e i quarant’anni, i capelli corti color miele e un volto che suggerisce un mondo taciturno e schivo. Ma dietro l'”immagine di Mark vi è in realtà una donna, Hana Doda, costretta a nascondere il suo vero corpo dentro una camicia e un paio di pantaloni, a reprimere qualsiasi sospetto di seno con delle grandi fasce bianche che la mortificano. C’è infatti un passato fitto e doloroso che ancora la travolge in logorante silenzio: Hana è cresciuta fra le montagne dell'Albania, una delle zone più retrive e chiuse del paese, dove la donna è obbligata ad andare incontro a un destino di moglie e serva. Per evitare un futuro di oppressione e divieti, come il non poter svolgere i lavori degli uomini o imbracciare un fucile, seguendo le orme del severissimo zio, Hana si appella alla legge arcaica del kanun, che permette alle donne che giurano di rimanere vergini di vivere liberamente e comportarsi come un uomo. Fatta questa drastica scelta, Hana abbandona i suoi abiti, si taglia i capelli e diventa così Mark Doda. Una (falsa) via d’uscita questa che, però, presenta presto il conto del vicolo cieco: quando la protagonista decide inaspettatamente e senza preavviso di andare a trovare in Italia sua sorella, fuggita anni prima dal suo stesso universo oppressivo per crearsi una famiglia, dovrà scontrarsi con il mai sopito desiderio di contatto, sentimenti e libertà.
Nella sequenza d’apertura Mark appare gioioso mentre, insieme ad altri uomini, rincorre nella neve un ariete, seguito da una macchina da presa i cui sobbalzanti movimenti ripropongono e imitano il suo entusiasmo. Ma un improvviso cambio di scena mostra una prospettiva differente: in campo lungo vediamo la figura di Mark/Hana lontana, in piedi, di fronte a un lago, sovrastata dallo sfondo padrone delle montagne. La sua sagoma si fonde in maniera rilassata in quel mondo naturale oppure è costretta a inserirsi, come un incastro forzato, in tale scenario di rocce e acque imponenti? Ecco dunque che il dubbio fa scattare in lei una consapevolezza che gli eventi faranno crescere a dismisura.
Laura Bispuri, qui al suo primo lungometraggio, prepara e delinea per Hana un lento cammino in ascesa, lo tratteggia con instancabile e raffinata sottrazione, anche quando scruta il disagio direttamente negli occhi e nelle espressioni più deboli e sofferte della protagonista. In questo è certamente aiutata dalla recitazione sottotono di Alba Rohrwacher, che si esprime al meglio durante i silenzi. Vediamo che, senza il suo vero corpo e assediata da un infinito ventaglio di privazioni, Mark/Hana non può veramente essere: è un’entità che si muove all’incerta ricerca di una misteriosa bussola interiore, che non riesce a trovarsi a proprio agio né incastonata nella Natura, la quale, vastissima, sembra invadere le sue parole e le sue pulsioni ammutolendole, né nel labirinto stancante e avvilente della città, che, all’inizio, la porta ad affogare ulteriormente in se stessa. Fino a quando l’incontro con altri corpi non le farà scoprire il suo, giungendo infine a capire di poter avere, al di là dell'identità e del binomio uomo/donna, la libertà di non essere per forza qualche cosa.