Uno dei momenti più attesi di questa Cannes è senza dubbio il ritorno alla regia di Roman Polanski, che con Venus in Furs torna a uno dei territori a lui più congeniali, il teatro. Solo in un teatro di Parigi dopo una lunga giornata di audizioni alla caccia di attrici per il ruolo di protagonista nella sua ultima piéce, lo sceneggiatore e regista Thomas (Mathieu Amalric) si lamenta, non ha trovato nessuna per interpretare una donna che gioca con la sua controparte maschile, ovvero lui stesso, per dominarlo.
In quel momento arriva Vanda (Emanuelle Seigner) invadente, dissociata, disperata e mal preparata, o almeno così sembra. Ma quando inizia a recitare, tutto cambia, come l’espressione del volto di Thomas. Lei è magnetica e quell’audizione è il momento in cui per Thomas le emozioni verso di lei passano dall’attrazione all’ossessione. Probabilmente anche per Polanski stesso, visto che Thomas/Amalric si innamora di Vanda/Seigner, la compagna “reale” dell’autore. Il film pare proprio restituire in presa diretta l’atto psicologico di un colpo di fulmine.
Allo stesso modo è però la fisicità degli attori che abbaglia, come il continuo gioco con lo spazio (teatro/cinema) che Polanski riesce a mettere in scena in modo sublime. Il regista polacco pare sempre più andare verso film, giocati con meno personaggi possibili, in cui è la recitazione a creare le forme e ad introiettare le emozioni. Dopo averle costruite si “limita” a rappresentarle, seguendole nella loro espressione più vitale e diretta possibile. Un cinema che trova la dimensione nell’atto stesso di essere messo in scena, da una parte sempre più piccolo ma sempre più splendido per chi (lo) guarda.