I mostri dell’America a Venezia
A Venezia il cinema americano racconta i lati oscuri dell'everyman
A Venezia 74 hanno vinto i mostri: il Leone d’Oro infatti è stato assegnato a Guillermo Del Toro e al suo The Shape of Water, una fiaba dark in cui – come sempre nel cinema del regista messicano – il nemico reale non è mai la creatura fantastica. Chi sono allora i veri mostri? Forse bisogna guardare oltre l’apparenza, perché è dietro la maschera umana che si celano le vere mostruosità, soprattutto dietro quelle dell’uomo medio americano.
Confrontando tre film provenienti dall’America (tutti in concorso), si può notare una certa interconnessione di temi fra Downsizing di Alexander Payne, Suburbicon di George Clooney e Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh: tutti mostrano le contraddizioni dell’America contemporanea, il volto nascosto della Land of the free and Home of the brave.
Alexander Payne descrive un’America “piccola” in senso letterale: il regista immagina un futuro non molto lontano in cui esiste un processo di rimpicciolimento del corpo (il downsizing del titolo) creato per salvaguardare le sorti del nostro sovraffollato ed economicamente traballante pianeta. Tra chi si sottopone a questa bizzarra pratica c’è Paul Safranek (Matt Damon), uomo comune che decide di farsi miniaturizzare per risolvere i problemi finanziari. Infatti, una volta alto 12 cm, i suoi risparmi diventano una fortuna che gli permette di condurre una vita di lusso nella comunità per gli smalls. È proprio con questo confronto fra grande e piccolo che Payne dà il meglio di sé: sotto la lente di ingrandimento, i problemi sono macroscopici e il downsizing, inventato da alcuni scienziati norvegesi con intenti ambientalisti, si trasforma in una possibilità per l’americano medio di abbandonarsi al lusso sfrenato. Nella comunità dei piccoli si ripropone, in scala ridotta, la stessa divisione di classi che esiste nel mondo grande: da una parte i benestanti come Paul, dall’altra i migranti che hanno sfruttato il rimpicciolimento per entrare nel Paese, inseguendo l’illusione di una vita migliore. Nessuno degli smalls si è fatto ridurre di misura per una questione ecologica, né Paul né tanto meno il suo vicino di casa Dusan (Christoph Waltz) dedito alle feste e ad affari non proprio leciti. La storia di Payne è anche un viaggio di formazione (così come nei suoi precedenti film) in cui il protagonista, a dispetto della sua modesta altezza, compie una grande crescita spirituale.
Il film di George Clooney, supportato dalla sceneggiatura dei fratelli Coen, è ambientato invece in una periferia americana modello (suburb-icon), luogo apparentemente idilliaco dove i bianchi borghesi nascondono scheletri nell’armadio dietro un sorriso maligno. Il regista e gli sceneggiatori giocano con dinamiche già collaudate (il coeniano Fargo) e strutturano il film su due livelli: da una parte il tema del razzismo, che riguarda l’ostilità dei cittadini di Suburbicon nei confronti della nuova arrivata famiglia afroamericana, dall’altra le grottesche vicende di Gardner Lodge (ancora una volta Matt Damon). Oltre la tematica del razzismo, ci sono elementi di black humour e oltre la facciata di perbenismo c’è un animo meschino e crudele. Il terzetto Clooney-Coen si diverte a mettere alla berlina il volto bifronte della white middle-class e quei valori reputati sacri dalla stessa (la famiglia, su tutti) vengono smontati uno per uno da personaggi senza scrupoli.
Ancora un’altra variazione sul tema con Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, in cui Martin McDonagh si concentra su un microcosmo duro, violento e contradditorio di una cittadina – inventata, ma realistica – nel Missouri. Siamo sempre in America, nel Midwest, in uno degli stati della Bible Belt, dove vivono persone semplici spesso legate a una cultura arretrata e ricca di pregiudizi (razzismo, omofobia). In questo inferno, il regista e sceneggiatore segue le vicende di diversi personaggi, che sono apparentemente in lotta fra loro, ma che in realtà condividono molto di più di quello che sembra. La protagonista indiscussa è Mildred Hayes (una grandiosa Frances McDormand), una madre arrabbiata perché la polizia non ha ancora trovato, dopo sei mesi, lo stupratore e assassino della figlia. Mildred è pronta a farsi giustizia da sola, per lei ormai giusto e sbagliato si confondono. E proprio questo è il tema generale del film: la contraddizione, la (con)fusione di bene e male che caratterizza tutti gli umanissimi personaggi della storia. Perché nonostante la sua crudezza, oltre il pulp e i dialoghi brillanti e cinici, il film è molto umano. Se dietro il velo di perbenismo di Matt Damon in Suburbicon si nasconde un mostro, dietro la brutalità di Frances McDorman, Woody Harrelson e Sam Rockwell ci sono sentimenti buoni e puri, induriti da un mondo troppo cupo.
Ma alla fine, i tre film si concludono con uno spiraglio di speranza: la crescita morale di Paul Safranek; i due bambini, uno bianco e l’altro nero, che giocano a tirarsi la palla oltre la staccionata, incuranti del sangue che scorre dentro casa; la redenzione per Mildred, che trova qualcuno con cui condividere il suo indicibile dolore.
Tutti e tre questi film descrivono, con stili diversi, la loro visione dell’America contemporanea. In prospettiva, si preparano, inoltre, a fare incetta di nomination e premi agli Academy Awards, com’era stato per Gravity, Birdman e La La Land nelle scorse edizioni della Mostra del Cinema. Ma l’invito di Del Toro, Payne, Clooney&Coen e McDonagh è quello di guardare oltre la facciata, di scoprire chi sono i veri mostri. Spesso non hanno squame o sembianze animalesche, il più delle volte i mostri indossano una maschera antropomorfica. Sono quelli che sfruttano una buona causa per il proprio tornaconto, sono i nostri vicini di casa che premeditano omicidi a sangue freddo, sono persone comuni, capaci però di uccidere una ragazza e vantarsi delle loro orripilanti gesta. E allora verrebbe da chiedere a tutti questi mostri – come fa l’inquietante coniglio in Donnie Darko – «perché indossi quello stupido costume da umano?».