Probabilmente è l’autore più famoso di sempre, difficile imbattersi in qualcuno che almeno una volta nella vita non abbia letto, studiato, visto a teatro o anche solo citato una delle sue opere; eppure è curioso quanto poco si sappia di Shakespeare. Non si conosce neanche il suo aspetto in realtà – diffidate dai ritratti che vengono spacciati per autentici, nessuno è veramente attendibile -, così come molti sono i testi a lui attribuiti di cui non è accertata la paternità. Di uno però non c’è dubbio: venne pubblicato in vita ed ebbe subito grande successo, tanto da essere ristampato sedici volte in soli quarant’anni; tuttavia – ironia della sorte – non solo si tratta di un’opera semisconosciuta oggigiorno, ma perfino di un lavoro non teatrale: Venere e Adone, un poema in sestine.
La vicenda è presto detta. La dea della bellezza si innamora perdutamente dell’avvenente Adone, lo attrae a sé, tenta di conquistarlo, ma questi indifferente fugge via dall’ardore della dea per dedicarsi alla sua vera passione: la caccia. L’indomani Venere trova il ragazzo esanime, ucciso da un cinghiale; il corpo del giovane si trasformerà in un anemone che la dea coglierà, affranta, per poi scomparire tra le nuvole.
Valter Malosti (regista e – in questa nuova versione – unico interprete) recupera il poema shakespeariano, lo ritraduce, lo ambiente in una sorta di postribolo abbandonato e lo innerva di musica che spazia dal barocco all’avanguardia (suono G.U.P. Alcaro), fino a trasformarlo in una lettura scenica in concerto. Stravaganza? No, però forse è necessario ricordare una cosa. La storia gioca strani scherzi e talvolta lascia maturare idee bizzarre sul passato: la perfezione marmorea delle statue classiche, ad esempio, è una concezione tutta moderna, così come la presunta castigatezza dei nostri antenati è un prodotto dell’Ottocento borghese, e via dicendo. Perciò non c’è da sorprendersi se sulla scena spoglia dell’Argot, in un’atmosfera apparentemente kitsch, il teatrante torinese si presenta en travesti nel ruolo di entrambi i personaggi, se indossa stivali in latex o se recita la parte della dea Venere con cadenza partenopea: il suo Venere e Adone (2007) è estremamente fedele all’originale.
Il poema inglese era caratterizzato da una dicromia ricorrente: il bianco e il rosso, contrapposizione che investiva l’intera composizione, fra innocenza e passione, neve e fuoco, latte e sangue, rigore e ardore. A Malosti ciò non sfugge e infatti appare con una camicia anemone che in quel rosa volant coniuga su di sé e attorno a sé le due anime dell’opera: una mano è smaltata di cremisi – l’altra naturale, la sua Venere è una libidinosa e attempata cocotte affamata di candore – il suo Adone un giovanetto imberbe paonazzo di testardaggine, la dea è avvolta da fasci di luce ardente – il ragazzo nascosto da tiepidi fari bianchi (Francesco Dell’Elba). Insomma, nessun dettaglio è lasciato al caso.
È vero, l’attore si mostra come uno Shakespeare semi-travestito, però c’è ben poco di scabroso nella sua figura di capocomico-maîtresse che offre una storia licenziosa e poetica: forse non emoziona, ma certamente non è né provocatorio né irrispettoso (il poemetto era popolarissimo nei bordelli), la traduzione è rigorosa più di quanto le libertà sceniche diano a vedere, e di fatto il vero limite della messa in scena sta nella sua profonda aderenza all’originale (le cui ridondanze elisabettiane a volte appesantiscono il ritmo). Ma poco importa, perché si tratta di un’operazione dall’onestà cristallina che non deve essere confusa con il kitsch: a meno che non si voglia cominciare a chiamare kitsch tutta l’arte greca che, per l’appunto, era coloratissima (vedere per credere).
Venere e Adone_in concerto di Malosti, dunque, traccia percorsi necessari di continuità con il passato, dimostrando come non ci sia sempre bisogno di svecchiare o idolatrare i classici per rappresentarli, ma basti piuttosto accoglierli in sé, innanzitutto, e dialogare con essi.
Teatro Argot Studio, Roma – 16 ottobre 2014
In apertura: foto ©Manuela Giusto 2014 www.manuelagiusto.com