Varda par Agnès
Varda si racconta attraverso gli occhi di Agnès nell’ultima opera-testamento di una regista e artista che non ha mai smesso di sperimentare con le immagini.
Da dove iniziare per raccontare una vita intera e una vasta carriera lunga 65 anni, che si muove fluida tra cinema (con circa 40 film, tra lunghi e corti), fotografia e visual art? Si potrebbe partire da un titolo, quel Varda raccontata attraverso gli occhi di Angès, una dichiarazione d’intenti che mostra tutta la dimensione auto-riflessiva e anche un po’ giocosa della regista-artista Agnès Varda, scomparsa il 29 marzo 2019 all’età di 91 anni, salutando con un’ultima opera, il testamento Varda par Agnès (2019), presentato alla 69a Berlinale. Come quasi tutta la produzione della Varda, anche questo lungometraggio evita le facili categorizzazioni e si sposta da una forma all’altra, dal film-saggio all’autobiografia per immagini, dal documentario alla lecture, sempre in movimento verso nuove sperimentazioni, proprio come la creatrice di questo progetto. La Varda si fa archivista di sé stessa e ripercorre le tappe della sua vita in ordine sparso, saltando da un film a un’installazione con personali associazioni di idee e, attraverso le proprie immagini, ci apre le porte del suo colorato, gioioso, vitale, immenso universo.
Raccolta, riuso, collage: sono queste le pratiche artistiche care alla Varda, che nel suo ultimo film si auto-ricostruisce attraverso i molti frammenti disseminati lungo il suo percorso artistico: si diverte a montare alcune sequenze di suoi film insieme alle riprese realizzate in occasione di due masterclass in cui la regista ha incontrato il pubblico. Si avvicina ai territori già esplorati nell’autobiografia filmica Les plages d’Agnès del 2008, ma il suo sguardo al passato non è mai nostalgico, piuttosto si coniuga con il desiderio di ripensarsi e ripensare le proprie immagini alla luce di nuove esperienze. Il ritornare sui propri passi non è un gioco autocitazionista fine a sé stesso, ma si allinea a quel gesto del riciclaggio che, soprattutto a partire dal 2000, con il bellissimo documentario-saggio Les glaneurs et la glaneuse, diventa spunto per nuove forme d’arte che espandono il cinema alla visual art. Il riciclaggio creativo della Varda trasforma le pellicole abbandonate del suo film Le bonheur (1965) in “una capanna del cinema”, installazione in cui riusa un materiale di celluloide ormai obsoleto donandogli una seconda vita perché, dice la regista in Varda par Agnès, «ho imparato che riciclare porta gioia».
Varda par Agnès è l’occasione non solo per una riscoperta dell’opera di una regista che non ha mai smesso di sperimentare con le immagini, ma anche un momento di incontro con l’altro: in tutti i suoi film, infatti, si percepisce una forte curiosità nei confronti del mondo esterno, un interesse sincero per le persone, siano esse i vicini di casa che popolano la rue Daguerre o i moderni spigolatori che fanno della raccolta degli scarti una necessità o un principio etico. Ma l’ultimo film di Agnès Varda è anche l’occasione di incontro con il suo pubblico, presentando una lezione (di cinema e di vita) che si proietta verso l’eterno.