Non è il solito Čechov. A voler racchiudere in una sola frase lo spettacolo Vania della compagnia Òyes presentato all’interno del Festival Inventaria che in questi giorni sta animando il teatro dell’Orologio , forse sceglieremmo proprio questa. Già. Perché nonostante il titolo inequivocabile richiami il capolavoro di Čechov, la giovane compagnia milanese, senza l’ansia di emulazione verso il drammaturgo russo né l’arroganza di volerci competere, non porta in scena Zio Vanja ma dà vita a una vera e propria riscrittura in chiave contemporanea, pur lasciando pressoché intatti i personaggi e l’intreccio principali, per farne materia viva che ci riguarda tutti.
Il rumore di un respiro artificiale accompagna Vania fin la prima scena: è il respiro del Sergio, professore in coma (Serebrijacov) ma anche quello di una società arroccata nel proprio malessere che non vuole morire per trasformarsi in altro: il punto di partenza è sempre la provincia, non quella russa di fine Ottocento ma quella indistinta di un hinterland lombardo dei giorni nostri in cui si staglia la vicenda della famiglia che gravita, per l’appunto, attorno al Sergio: c’è il fratello Ivan/zio Vanja (Fabio Zulli), quasi quarantenne scansafatiche incastonato in eterno fra passato e presente; Elena (Vanessa Korn), la giovane moglie apparentemente algida ma più insicura di quanto si creda; la figlia adolescente Sonia (Francesca Gemma) che vive nell’abbaglio di andare a Londra per cambiare vita; e, infine, il medico (Umberto Terruso), anestetizzato dalla sua professione e incapace di provare più sentimenti.
Quel respiro è la rassicurazione che niente cambierà, è il pretesto per tutti di rimanere sempre uguali perché i veri comatosi, in realtà, sono i vivi. I personaggi ciondoleranno così in uno scheletro bianco di casa (realizzazione scenografica Stefania Coretti e Maria Barbara De Marco) quattro sedie solitarie illuminate da una flebile lampadina dove gli attori si rintanano quando non è il loro turno mentre passerà in scena una vita senza sussulti, un tempo morto che lascia spazio solo ai ricordi, ai sensi di colpa, ai sogni di rivalsa mai compiuti, agli amori non corrisposti. Insomma, tutto il sostrato čechoviano di atmosfere, umori e non detti si riflette in una drammaturgia squisitamente originale brillante, intensa e a tratti emozionante, avvalorata dalla regia asciutta e funzionale di Stefano Cordella composta da un intersecarsi sottile di parallelismi fra Vania e Zio Vanja mai banali o didascalici, ma rielaborati in modo incisivo e attento a captare i nervi scoperti della nostra contemporaneità. Un aspetto che si riversa anche nella recitazione, lontana dai soliti stilemi manierati à la Čechov e che trova invece una sua espressione autonoma, fresca ed efficace in tutti gli interpreti, tanto che viene da chiedersi: c’era davvero bisogno di Čechov?
In effetti, di čechoviano nello spettacolo c’è poco e non è necessariamente un male, anzi, a volte il peso del drammaturgo russo è persino troppo ingombrante per una vicenda che, da sola, avrebbe tutte le potenzialità per andare avanti in autonomia e superare i confini stabiliti.
Forse non tutto funziona alla perfezione: alcune parentesi più oniriche e sopra le righe rischiano infatti di alterare un delicato equilibrio scenico, ma a parte note a margine, Vania è un esempio felice di drammaturgia collettiva che con grande umiltà, semplicità e rigore porta in scena un teatro povero nel senso più nobile del termine ma ricco di suggestioni, idee e soprattutto qualità. Basta solo un pizzico di coraggio in più per uccidere del tutto i padri troppo opprimenti.
Letture consigliate:
Va Tutto Bene – Stefano Cordella, di Tiziano Bertrand
Comico e struggente, lo Zio Vanja di Čechov rivive nel Sistema di Filippo Gili, di Elena Cirioni
Ascolto consigliato
Teatro dell’Orologio, Roma – 12 maggio 2016