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Under the Skin – Jonathan Glazer

Di “kubrickiana” memoria è l’occhio che nei primi secondi di Under the Skin, film presentato da Jonathan Glazer alla Settantesima Mostra del Cinema di Venezia, svela il gioco metacinematografico di identificazione tra due visioni del mondo: quella del regista e quella del protagonista, un alieno che nei panni di una femme fatale (Scarlett Johansson) preda uomini facendo l’autostop.

L’essere fuori dal mondo quale pre-condizione necessaria al processo di umanizzazione inizia là dove la propria alienazione si riflette nell’alienazione altrui. Trattando le sue vittime con la freddezza propria di quei rapporti umani che si consumano nella fretta, scopriamo dalla protagonista quanta disumanità si cela nell’umano quotidiano. E la poltiglia di carne in cui si decompongono i corpi di volta in volta catturati, ne definisce la natura intrinseca. Almeno fino al punto d’inversione, che segna l’inizio del percorso di educazione emotiva. Il momento che ne svela il lato vulnerabile, quel “sensibile” che si nasconde “sotto la pelle” e che insinua il dubbio sulla propria condizione esistenziale.

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Glazer riesce a comunicarne il senso attraverso il contrasto di immagini dal forte impatto visivo che, se da un lato sembrano ricadere nello stereotipo del videoclip, dall’altro mostrano comunque attenzione nei riguardi di un certo cinema simbolico-figurativo (Antonioni-Kubrick). Dalla scena del pianto infantile, metafora della purezza che incontra la sofferenza, a quella della corsa nel bosco, quale possibilità di riscatto, ne seguiamo l’evoluzione attraverso la narrazione visiva, via via sempre meno fantascientifica e più realistica.

Allo stesso modo la colonna sonora ipnotica e straniante delle prime scene, lascia il posto ad una musica diegetica, come quella che si diffonde da una radio accesa. La visione si fa disincantata, deludendo le aspettative del pubblico con degli ironici rovesciamenti topici. Dal pezzo di torta vomitato, all’atto d’amore incompiuto, fino al disarmante finale, tutto ci suggerisce che non c’è via d’uscita: il male proviene da quel mondo che ci ostiniamo ad esplorare. Il bianco e il nero, l’alieno e l’umano, così distinti all’inizio, sono fatalmente inconciliabili. Solo nel finale sembrano mescolarsi, ma il fumo nero che squarcia il bianco del cielo innevato pare dirci che ciò che manca davvero all’umanità è un’umanità più autentica.

Grazie


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