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Un’arte di materia e silenzio. Cento anni fa nasceva Alberto Burri

Come spesso accade, non solo in campo artistico, le ricorrenze sono un’occasione per fare il punto su un momento storico, un linguaggio o una particolare personalità, e nello stesso tempo promuovere iniziative che incentivino la conoscenza dell’evento o del personaggio celebrato.
Non fa eccezione un evento come il centenario della nascita di Alberto Burri. Artista di primo piano nel panorama italiano e internazionale del secondo ‘900, Burri era nato a Città di Castello, in provincia di Perugia, il 12 marzo 1915 (scomparirà invece, poco prima di compiere ottant’anni, nel febbraio del ’95).

Proviamo allora anche noi a sintetizzare in poche righe – senza alcun intento di completezza, ça va sans dire – i punti principali della ricerca dell’artista umbro, con l’intento tutt’al più di stimolare un approfondimento della sua straordinaria e complessa produzione.

Fin da subito la critica ha individuato nel lavoro di Burri la compresenza di due tendenze apparentemente opposte. Se da un lato, infatti, l’artista si serve (almeno inizialmente) di materiali grezzi, logori, che recano evidenti le tracce di un lungo impiego, dall’altro è costante nel suo lavoro un’attenzione acuta per la composizione, la strutturazione precisa dello spazio. La compresenza di queste due spinte contrapposte – che ha fatto parlare di “una sorta di Jekill-Hyde” (Pasini) –, più o meno modulate a seconda dei periodi, caratterizza tutta la produzione di Burri.

Catrame (1949) – ©Collezione Burri, Palazzo Albizzini, Città di Castello (PG)

Avvicinatosi alla pittura alla metà degli anni ’40 durante la prigionia in Texas (da ufficiale medico era stato catturato dagli Americani in Tunisia), egli giunge a Roma solo alla fine del decennio. La sua ricerca si concentra su vere e proprie fasi (non necessariamente successive l’una all’altra) in cui la scansione è data dalle diverse tipologie di materiali impiegati. Catrami, Muffe e Gobbi sono le prime esperienze attraverso cui Burri indaga la materia. Già dai nomi si intuisce la centralità degli impasti e delle coagulazioni che segnano lo spazio della tela. Nei Gobbi, in particolare, l’artista inserisce rami e strutture metalliche sul retro in modo tale da contorcere la superficie bidimensionale e portarla al limite della rottura, in una tensione spaziale che mostra tutta l’insofferenza dell’artista verso una concezione del quadro come semplice supporto di rappresentazione dell’immagine. Pur con le dovute differenze e specificità, è questa una linea che negli stessi anni porterà avanti a Milano l’altro cardine di riferimento della stagione “informale” italiana, Lucio Fontana.

Muffa (1952) – ©2015 Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Rome

Momento decisivo (e tra i più noti) nella ricerca materica di Burri è segnato dall’utilizzo dei Sacchi. Presente in nuce già in un lavoro precoce come SZ1 (1949), la tela di juta verrà impiegata ampiamente a partire dal 1952. Strappi, cuciture, rammendi, toppe, interventi con impasti cromatici caratterizzano questo nuovo e fondamentale ciclo della produzione dell’artista.

SZ1 (1949) – ©Collezione Burri, Palazzo Albizzini, Città di Castello (PG)

Come si diceva, materia grezza e composizione convivono qui in pari grado. Dualismo che si ripercuote a sua volta anche nelle letture critiche dei suoi lavori: le superfici scabre, sofferte, le “ferite” esistenzialiste inflitte alla materia (solo superficialmente leggibili alla luce della sua formazione da medico), conservano comunque un intento compositivo evidente, ancora in dialogo con la pittura. Come scriverà Giulio Carlo Argan, ci troviamo di fronte alla “finzione di un quadro, una sorta di trompe-l’œil a rovescio, nel quale non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura”.

Sacco (1956)

Se con i Sacchi – e, solo parzialmente, con i successivi Ferri – Burri si serve di materiali di scarto, già usati, con i Legni e ancor più con le Plastiche, l’artista utilizzerà il fuoco come vera e propria “arma” per intervenire e modellare la materia.
La fiamma ossidrica, ad esempio, lacera e ricompone la plastica nel Grande rosso P n.18 (1964), un’opera potente in cui uno dei materiali industriali per eccellenza, la plastica appunto, simula quasi un drappeggio barocco, fissato qui al limite del disfacimento: un grande squarcio si apre sul nero di fondo, ma il fuoco si ferma un attimo prima e la forza dell’opera risiede proprio in questo fragile equilibrio fra forma e disgregazione, fra “vita e morte”, diceva ancora Argan.

Grande rosso P n.18 (1964) – ©GNAM, Roma

Col passare degli anni l’attenzione di Burri si concentrerà ancora sui materiali industriali – nei Cellotex, per esempio – e sugli accadimenti naturali o imposti alla materia. È il caso dei celebri Cretti, in cui, controllando gli effetti con sapienza da chimico, l’artista aprirà una nuova importante fase nella sua esplorazione tesa fra superficie e profondità, impalpabilità e concretezza. A questa fase – anche se più avanti a livello cronologico, vista la datazione a partire dalla metà degli anni ’80 – appartiene il grande Cretto di Gibellina, realizzato sulle macerie del paese siciliano distrutto dal terremoto del Belice nel 1968: straordinario esempio di dialogo fra ricerca formale, dimensione ambientale e memoria storica.

Cretto di Gibellina (1984-89) – Gibellina (TP)

Il restauro del Cretto è una delle iniziative legate alle celebrazioni del centenario della nascita di Burri e promosse dalla Fondazione Palazzo Albizzini di Città di Castello. Fra queste si segnala, inoltre, la pubblicazione di un nuovo catalogo generale dell’opera, la mostra Rivisitazione: Burri incontra Piero della Francesca al museo civico di Sansepolcro (Ar) e, a partire dal prossimo ottobre, la grande retrospettiva Alberto Burri: The Trauma of Painting che il Museo Guggenheim di New York dedicherà al maestro umbro, a dimostrazione del valore internazionale di quella ricerca silenziosa e costante, profonda e ostinata, che dagli anni ’40 ha segnato l’arte del dopoguerra.


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