Inquietante e vero come certi sogni lucidi, crudele e freddo come una stilettata al cuore. È Una specie di Alaska, di Harold Pinter con la regia di Valerio Binasco in cartellone al Teatro dell’Orologio di Roma. L’atto unico di Pinter, scritto nel 1982 e tratto dalle testimonianze del neurofisiologo Oliver Sacks sui risvegli dal coma, racconta di una rinascita che sotto l’apparente impressione di una buona notizia nasconde il mondo cupo e cinico del drammaturgo inglese.
Deborah (Sara Bertelà) apre gli occhi dopo ventinove anni di sonno e si ritrova in una camera con accanto un uomo sconosciuto, il Dottor Horby (Nicola Pannelli). Non ha idea di dove si trovi e di quale sia la sua età; tutto è rimasto fermo a quel giorno di ventinove anni prima, quando improvvisamente è caduta in uno stato semivegetativo. Per lei è come se il tempo non fosse passato, rimane la ragazzina di sedici anni che andava a scuola, studiava francese e giocava con le due sorelle Estelle e Pauline (Orietta Notari).
La scena buia, scarna, con un tavolo, una sedia e il letto in ferro dove Deborah si scopre donna matura e dove non riesce a capire quale sia il passato e il presente. La luce fioca e calda illumina i ricordi di una vita lontana che non trova più riferimenti e si confonde con il mondo irreale e le inquietudini del coma. Unica figura concreta il Dottor Horby, enigmatico principe azzurro che grazie a una nuova medicina è riuscito a risvegliare una bella addormentata che vorrebbe ritornare nel suo mondo di sogni. Deborah di fronte alla vita che nonostante tutto va avanti, vorrebbe tornare indietro, restare nella prigione di sogni e visioni in cui ha vissuto.
Sara Bertelà interpreta quest’eterna ragazzina intrappolata in un’adolescenza di spasmi e inquietudini, incapace di riconoscere la sorella Pauline e di comprendere la realtà. È lei il perno di tutto lo spettacolo, una donna matura che si sente bambina e ha deciso di non crescere rimanendo nel mondo di giochi e spensieratezze, in quella specie di Alaska dove tutti vorremmo ritornare.