L’impotenza come tarlo confortante
Al Brancaccino 'Un uomo a metà' di Rugo
Succede, talvolta, di sentirsi vivi a metà. Capita a chi è vittima di prevaricazioni, di violenza, a chi si vede negato (o nega a sè stesso) cioè l’inalienabile diritto alla propria realizzazione: ci si ritrova costretti, così, in una lotta alla sopravvivenza contro sé stessi con quella triste, innata difesa (in)umana che porta a giustificare il dolore, addormentando la vita nel sacrificio e nell’impotenza.
La scena del Brancaccino è spoglia, e mentre il pubblico prende posto in platea c’è già un uomo che la percorre in lungo e in largo: è claudicante, scalzo, ma il passo è deciso, nervoso. Una breve presentazione e comincia il monologo dell’Uomo a metà (regia Roberto Bonaventura): mentre costruisce la scenografia della sua vita, Giuseppe si racconta. È un uomo schietto e sensibile, con una famiglia tradizionale, di quelle che affogano nel vizio la latitanza di emozioni; fa il rappresentante di articoli sacri e un bel giorno incontra Maria. Giuseppe, Maria e le statuette in gesso della Madonna. Sembrerebbe una banale storia d’amore da “edizioni paoline”, ma qualcosa va storto.
L’uomo si accorge di non poter consumare quell’amore, che quindi si corrode prima ancora di culminare nel trionfo dell’equivoco della famiglia naturale: come in un presepe profanato, Giuseppe deve accettare che sia qualcun altro a fecondare il suo desiderio di unione con Maria, condannandosi ancora una volta a sentirsi un uomo solo a metà.
La scrittura brillante dai ritmi ora serrati ora distesi di Giampaolo Rugo viene assorbita e riversata in scena dalla carica emozionale di Gianluca Cesale, abile a misurare la coloritura partenopea della propria caratterizzazione, soprattutto quando nelle sfumature più fosche l’ironia cede alle urgenze della riflessione più profonda.
Sarà alla festa di addio al celibato che come in una sorta di esorcismo tanto pop quanto salvifico qualcosa (anzi qualcuno) libererà Giuseppe: improvvisamente svanisce quella vecchia abitudine al dolore che lo accompagna fin da quando fu costretto da un infortunio a rinchiudere i suoi sogni da stadio in una ventiquattrore da rappresentante; basta un’umanità incrociata per caso, un corpo nudo, e quella cronica impotenza fisica quanto cerebrale si sfigura in un lucido istinto di rivalsa.
Lo spettacolo vincitore del Napoli Fringe Festival 2015 è un intrattenimento inaspettatamente ironico, violento e liberatorio, che funziona come detonatore di questioni irrisolte: esiste una “distanza di sicurezza” da mantenere tra la libertà individuale e il dovere sociale? Quand’è che bisogna smettere giustificare il dolore e affrontarlo, prima che ci scoppi tra le mani?
Probabilmente non esiste una risposta che sia una. Intanto si potrebbe provare, però, a non rinunciare mai a noi stessi in funzione del conformismo sociale; forse così si potrebbe vincere anche la paura di non bastarci soli: quella sensazione di essere irrimediabilmente vivi ma solo a metà.
Ascolto consigliato
Teatro Brancaccino, Roma – 12 febbraio 2016