Foto di scena ©Giuseppe Contarini

L’impotenza come tarlo confortante

Al Brancaccino 'Un uomo a metà' di Rugo

Succede, talvolta, di sentirsi vivi a metà.  Capita a chi è vittima di prevaricazioni, di violenza, a chi si vede negato (o nega a sè stesso) cioè l’inalienabile diritto alla propria realizzazione: ci si ritrova costretti, così, in una lotta alla sopravvivenza contro sé stessi – con quella  triste, innata difesa (in)umana che porta a giustificare il dolore, addormentando la vita nel sacrificio e nell’impotenza.

La scena del Brancaccino è spoglia, e mentre il pubblico prende posto in platea c’è già un uomo che la percorre in lungo e in largo: è claudicante, scalzo, ma il passo è deciso, nervoso. Una breve presentazione e comincia il monologo dell’Uomo a metà (regia Roberto Bonaventura): mentre costruisce la scenografia della sua vita, Giuseppe si racconta. È un uomo schietto e sensibile, con una “famiglia tradizionale”, di quelle che affogano nel vizio la latitanza di emozioni; fa il rappresentante di articoli sacri e un bel giorno incontra Maria. Giuseppe, Maria e le statuette in gesso della Madonna. Sembrerebbe  una banale  storia damore da “edizioni paoline”, ma qualcosa va storto.

Foto di scena ©Giuseppe Contarini

L’uomo si accorge di non poter consumare quell’amore, che quindi si corrode prima ancora di culminare nel trionfo dell’equivoco della “famiglia naturale”: come in un presepe profanato, Giuseppe deve accettare che sia qualcun altro a fecondare il suo desiderio di unione con Maria, condannandosi  – ancora una volta – a sentirsi  un uomo solo a metà.

La scrittura brillante dai ritmi ora serrati ora distesi di Giampaolo Rugo viene assorbita e riversata in scena dalla carica emozionale di Gianluca Cesale, abile a misurare la coloritura partenopea della propria caratterizzazione, soprattutto quando nelle sfumature più fosche lironia cede alle urgenze della riflessione più profonda.

Sarà alla festa di addio al celibato che – come in una sorta di esorcismo tanto pop quanto salvifico – qualcosa (anzi qualcuno) libererà Giuseppe:  improvvisamente svanisce quella vecchia abitudine al dolore che lo accompagna fin da quando fu costretto da un infortunio a rinchiudere i suoi sogni da stadio in una ventiquattrore da rappresentante; basta unumanità incrociata per caso, un corpo nudo, e quella cronica impotenza – fisica quanto cerebrale – si sfigura in un lucido istinto di rivalsa.

Foto di scena ©Giuseppe Contarini

Lo spettacolo – vincitore del Napoli Fringe Festival 2015 –  è un intrattenimento inaspettatamente ironico, violento e liberatorio, che funziona come detonatore di questioni irrisolte: esiste una “distanza di sicurezza” da mantenere tra la libertà individuale e il dovere sociale? Quand’è che bisogna smettere giustificare il dolore e affrontarlo, prima che ci scoppi tra le mani?

Probabilmente non esiste una risposta che sia una. Intanto si potrebbe provare, però, a non rinunciare mai a noi stessi in funzione del conformismo sociale; forse così si potrebbe vincere anche la paura di non bastarci soli: quella sensazione di essere irrimediabilmente vivi – ma solo a metà.

Ascolto consigliato

Teatro Brancaccino, Roma – 12 febbraio 2016

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