Un teatro senza Bene
Cinieri torna a Dostoevskij con troppo poca libertà
«Liberiamoci della libertà. Niente è così vincolante quanto la libertà. Sputate sulla libertà e sui tribuni della libertà».
Le parole di Carmelo Bene, o di quel che ne era rimasto, durante la celebre apparizione televisiva al Maurizio Costanzo Show del 1995 non devono essere certamente rimaste inascoltate da Irma Immacolata Palazzo e Cosimo Cinieri, coppia teatrale molto legata alla figura dell’attore salentino che vent’anni torna a indagare sul concetto di libertà e sottomissione con Il Grande Inquisitore, il celebre capitolo de I fratelli Karamazov , ultimo romanzo e testamento spirituale dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij.
Che cosa sarebbe successo se Gesù Cristo avesse manifestato la propria discendenza divina a comando? Sicuramente avrebbe avuto più fedeli al suo seguito, molto probabilmente non sarebbe neanche morto crocefisso: però avrebbe tradito il suo principio di fede pura basato proprio sul libero arbitrio. Certo, le sue rinunce al peccato e alle tentazioni sarebbero dovute bastare di per sé a spianare la strada verso il suo ideale di Bene, ma egli non tenne in considerazione un fattore fondamentale: gli uomini non sono dèi, non hanno la loro forza di volontà, sono esseri mediocri e in quanto tali bisognosi di essere guidati.
Una teoria, questa, che è alla base del poemetto che Ivan, il secondogenito della famiglia Karamazov, andrà a esporre ad Alëa, suo fratello minore. Per tale motivo, quando il suo Cristo torna sulla terra durante il periodo dell’Inquisizione spagnola a controllare i frutti del proprio operato, sarà brutalmente cacciato dal Grande Inquisitore, desideroso questi invece di mantenere quel fragile equilibrio fondato proprio sull’importanza delle autorità, così necessarie a manipolare la libertà dei suoi cittadini-sudditi non ritenuti degni o capaci da sé di decidere cosa sia realmente giusto o sbagliato per loro. Un discorso che potrebbe benissimo abbandonare i canoni della Fede e rientrare in altri ambiti quali l’odierna politica o il mercato globalizzato, ma che avrebbe bisogno di un approfondimento più lungo. Torniamo invece a Cristo.
Nel 1981 nel CEP barese (quartiere periferico), Cosimo Cinieri interpretò il figlio di Dio tornato in terra per verificare gli effetti del suo messaggio. Le immagini della vicenda e i commenti degli spettatori dell’epoca più creduloni che scettici aprono oggi la messinscena di Irma Palazzo rafforzando la grande illusione celata dietro credenze imposte e forse mai realmente ponderate dai suoi utilizzatori finali.
Il susseguirsi delle immagini e l’entrata in scena di un novello Gesù (il soprano Bibiana Carusi) sono il preambolo all’esposizione del progetto letterario che Ivan (Sebastiano Nardone) sottopone ad Alëa (Roberta Laguardia). Parole che prendono vita e forma con il materializzarsi del Grande Inquisitore (Cosimo Cinieri) che, in frac, davanti al suo leggio, sputa benianamente sul palco le sentenze di Dostoevskij.
A più di trent’anni di distanza, dunque, Cinieri si trasforma da vittima in carnefice per continuare la sua provocazione sul simbolo e sulla deformazione di questo ad opera dell’autorità. Tuttavia, se la messinscena giocata su più registri, con le immagini di repertorio che s’intrecciano al canto del soprano e al dialogo realista dei due fratelli Karamazov, impreziosisce e rafforza il messaggio dello scrittore russo; ciò che realmente ci lascia, alla fine, non è niente più che l’accorata lettura di un grande attore e, appunto, la riflessione sempre attuale di Dostoevskij. Quanto al teatro, però, ce ne giunge ormai soltanto un’eco lontana nel tempo.