Un sogno chiamato Florida
L'auto-distruzione di una famiglia disfunzionale
Famiglie disfunzionali, prostituzione, pedofilia, violenza: questi sono solo alcuni dei temi che affollano Un sogno chiamato Florida (The Florida Project), affresco estetizzato e anti-classico dell’America contemporanea. Con quest’opera, Sean Baker – cineasta noto nel panorama indipendente degli Stati Uniti – torna infatti sul grande schermo a due anni da Tangerine (2015), decidendo di confrontarsi con una realtà cruda e degradata, antitetica a quel perbenismo edulcorato che ancor oggi affolla le produzioni mainstream. Una famiglia apparentemente controcorrente è quella composta dalla piccola Moonee e dalla madre Halley, giovane ragazza tatuata ed eccentrica che riesce a fatica a mantenere se stessa e la figlia. Due personaggi che, rompendo con il canone borghese di provincia, raccontano una storia, che non è solo la loro, ma che anzi accomuna molti disoccupati. Lontano dall’American dream che generalmente il cinema a stelle e strisce pianifica e propone, il ritratto di Halley e Moonee si erge a modello-altro indubbiamente attuale che, nel vortice di eventi che sembrano incontrollabili, spacca la realtà promossa dalla grande Hollywood.
La fabbrica dei sogni americana sta infatti da tempo tentando di ragionare sulle famiglie non tradizionali, micro-cosmo con cui anche i prodotti dell’immaginario comune devono confrontarsi. Non prescindendo quelle logiche visivamente regolamentate che presiedono la narrazione mainstream, anche questa tipologia di nuclei affettivi viene però generalmente reinquadrata in storie consolatorie o anti-mimetiche, naturali evoluzioni del classicismo antecedente. Volgendo lo sguardo solo rapidamente all’ensemble di pellicole e prodotti televisivi finanziati dai grandi studios, appare immediatamente palese come al limite storie agro-dolci dai tratti onirici – si veda il caso de The Royal Tenenbaum (2001) o di Little Miss Sunshine (2006) – si alternino a format dai caratteri estremamente umoristici o perfino parodistici – in tal senso, da quasi dieci anni, la sit-come Modern Family ne è il modello più esplicito.
Little Miss Sunshine (2006)
Conscio di questa tradizione mascherata da innovazione, Sean Baker stravolge i canoni a cui Hollywood ha abituato i propri spettatori, raccontando di una famiglia reale e tangibile, estrema ma non lontana dalla realtà quotidiana. E se il personaggio di Halley rientra almeno parzialmente in un altro stereotipo (quello altrettanto ingombrante dell’alternativa malgrado tutto), è la piccola Moonee a trasformarsi in emblema di una disfunzionalità diffusa e autodistruttiva. Dolce e contemporaneamente forte, scurrile ma allo stesso tempo fragile, la bambina è un personaggio a tutto tondo che, nel suo piccolo, rappresenta pienamente la decadenza e il tentativo di rinascita di una società forse già destinata a soccombere sotto il peso del presente.
Lontana dai personaggi a cui in gioventù prestarono il volto Dakota Fanning o Abigail Breslin, la ragazzina di sei anni incarnata da Brooklynn Prince si presenta fin da subito come portatrice di un doppio modello, intrecciante le emulazioni del comportamento fuorviato della madre e l’innocenza tipica dell’età che spesso si dimentica di avere. Certo, i più accorti ribatteranno che il candore e la purezza da sempre caratterizzano la rappresentazione dei bambini al cinema: in questo caso, però, l’ineludibile ingenuità si fonde con la sconsideratezza di una maturità mancata, teoricamente non richiesta ma tristemente necessaria. Se in molte famiglie disfunzionali on screen la madre auto-distruttiva viene infatti accompagnata da una prole che tenta di equilibrarla, Moonee non aiuta e non si sostituisce al genitore, rimanendo intrinsecamente quella che anagraficamente è. Rompendo anche con le regole dei ritratti famigliari più drammatici, Baker mostra pertanto due personaggi caratterialmente intercambiabili, minando non solo la gerarchia famigliare, ma anche quel rovesciamento tragico e consolatorio che spesso ricorre nelle rappresentazioni disfunzionali. Sotto questa luce, ecco che il lungometraggio si muove tra innocenza e perversione, dolcezza e sfacciataggine, seguendo con costanza l’adulta-bambina e la bambina-che-adulta-non-è.
In un crescendo emotivo che con forza mette in scena questa ambivalenza, The Florida Project rompe con il ritratto hollywoodiano della famiglia borghese, ripensando poi più nel profondo la rappresentazione dell’infanzia nel cinema tout court. Ricco di felliniane figure che si succedono accanto alle protagoniste, il lungometraggio di Sean Baker diventa dunque specchio di una realtà scomoda e non rincuorante che però, almeno per una volta, appare veritiera.