Un altro giro
Un film che riflette sul legame tra libertà e convenzioni, tra abuso, eccesso e riscatto.
Un altro giro di Thomas Vinterberg, film selezionato per l’edizione di Cannes 2020 sospesa a causa della pandemia, presentato in anteprima a Toronto, Londra e Roma, ha giocato un ruolo da protagonista nel corso dell’ultima edizione degli European Film Awards tenutasi nel dicembre scorso, aggiudicandosi il premio per miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior attore con Mads Mikkelsen. La pellicola è anche la scelta danese per concorrere agli Oscar 2021 nella categoria miglior film internazionale, a suggello del suo successo.
Come evoca il titolo originale, Druk, il film parla di alcol e ubriachezza. Martin (Mads Mikkelsen), Tommy (Thomas Bo Larsen), Peter (Lars Ranthe) e Nikolaj (Magnus Millang) sono quattro insegnanti in difficoltà: devono fare i conti con la loro età matura, subiscono un confronto quotidiano con i loro giovani studenti sempre più sterile e incolore. Dentro la morsa di una routine che niente più ha da dire, nemmeno nella vita di coppia o nella solitudine, una sera decidono di sperimentare la validità della teoria di uno psichiatra norvegese, Finn Skårderud, secondo il quale il livello di alcol nel sangue deve sempre corrispondere a una certa quantità: infatti, bevendo uno o due bicchieri al giorno, i sensi si aprono, la creatività e l’autostima crescono e con esse il coraggio e la fiducia verso gli altri.
Questa nuova regola di vita inizialmente apporta dei cambiamenti positivi ai protagonisti: tutti loro si sentono più coinvolti nel lavoro e avvertono nuovi stimoli. La novità di questi cambiamenti – alla cui repentinità ben risponde la credibilità del cast – li porta a spingersi ancora più in là, aumentando le dosi giornaliere di alcol. Ed è qui che il film da un’atmosfera quasi leggera e divertita passa a toni nettamente più cupi e tormentati. L’ebbrezza può diventare dipendenza fisica, l’autostima può diventare un egoismo che porta allo sfaldamento di tutti i legami sociali e della vita stessa. Vinterberg, allora, parte da una visione disinvolta dell’alcol e arriva a inquadrare le declinazioni del disagio e del fallimento ai quali tutti siamo esposti; problematizzando l’abuso di questa sostanza è in grado di focalizzarsi sul tema delle risposte e reazioni che decidono della nostra libertà di mostrarci per quel che siamo. È questo, del resto, un Leitmotiv del cinema del regista danese: da Festen al non abbastanza considerato Dear Wendy, passando per Il sospetto e La comune, il suo sguardo cinematografico si è sempre soffermato sul legame tra libertà e convenzioni, sul crinale distruttivo ma sempre determinante tra abuso (attuato o subito), eccesso e riscatto.
Sono lontani i tempi di Festen e di una regia radicalizzata ai dettami del Dogma 95 eppure Vinterberg, che si è regolato sempre più attenendosi a canoni più classici, continua a non rinunciare a quel minimalismo veloce e spossante della camera a mano che si muove liberamente negli spazi. Ed è questo che gli permette di essere penetrante senza mai essere stucchevole. Un altro giro non sceglie la via facile e ordinaria di un’analisi compiaciuta dell’euforia alcolica e delle sue derive. L’ironia – si può dire kierkegaardiana visti i riferimenti nel film al filosofo – con la quale segnala l’estrema facilità di cadere in preda ai fumi dell’alcol (con tanto di excursus storico-politici che spaziano da Churchill a Eltsin e Boris Johnson) scivola infatti in un monito che tuttavia non è morale ma esistenziale, in una piena e rispettosa osservazione dei tormenti interiori dei protagonisti.
Il sentore di fallimento e di mediocrità dal quale questi si sentono accerchiati va solo monitorato, così come va solo monitorata la splendida danza finale di Mads Mikkelsen, cristallizzata in una sospensione/riflessione conclusiva: si può imparare a essere se stessi dopo aver sperimentato gli eccessi e l’ebbrezza di un’altra possibilità e libertà d’essere?