In morte di Ubu
Quel grido sepolto dal dolore della farsa: Jarry secondo Latini
E se Padre Ubu fosse morto? Morto davvero, morto per sempre—cosa ne sarebbe di noi?
Che Roberto Latini sia un artista è un fatto evidente a chiunque abbia assistito con onesto abbandono ai suoi spettacoli, ma c’è qualcosa che lo contraddistingue dai suoi colleghi teatranti e ne fa un artista puro: Latini non guarda troppo al tempo in cui è immerso, né si fa mettere in scacco dalla cultura codificata; Latini crea con la lungimiranza di un saggio e l’innocenza di un bambino; Latini gioca un gioco senza mai dimenticare di star giocando e non per questo lo fa con minore serietà.
Ma allora cosa significa domandarsi cosa ne sarebbe di noi se Padre Ubu fosse morto? Significa domandarsi come vivremmo senza quella crudele innocenza chiamata umanità. E con il suo Ubu Roi, Latini sembrerebbe celebrarne appunto l’impossibile funerale. Impossibile perché purtroppo o per fortuna nulla muore mai davvero per sempre.
«Guardate, mi si sgancia la gogna e mi si sfilano le manette dalle mani. Finirà che mi troverò libero, senza ornamenti, senza scorta, senza onori, e costretto a provvedere da me a tutte le mie necessità!» [Ubu incatenato, Atto IV, 4]
Nato sui banchi di scuola del collegio di Rennes, dove circolavano storie buffonesche attorno al malcapitato professore di fisica Hébert, l’Ubu Re è una farsa per burattini composta nel 1888-89 da un quindicenne Alfred Jarry. Con gli anni questo personaggio buffo e grottesco, sanguigno e maldestro, conoscerà diverse variazioni che troveranno, infine, la loro forma più matura e filosoficamente satirica nell’Ubu incatenato del 1899 (filosofica perché sviluppa, a suo modo, la celeberrima dialettica hegeliana padrone-servo), divenendo il padre putativo di tutti i patafisici-dadaisti novecenteschi (si pensi a quel capolavoro di ironia antibellica che sono Le avventure del buon soldato Sc’vèik di Haek).
Ora, pur non avendo la complessità compositiva di un Sogno di Strindberg, l’Ubu Re è a suo modo altrettanto irrappresentabile, perché a meno che si ricorra ai pupi o tutto si riduca a una goliardata amatoriale trasferita sul corpo di attori in carne e ossa quella sua comicità grandguignolesca diventa immediatamente drammatica. Proprio come se, invece di un cartone animato, Peter Griffin (che, a ben guardare, è l’erede contemporaneo più brillante e compiuto di Padre Ubu) fosse realisticamente un americano obeso ritardato che insulta ebrei, donne e disabili: l’effetto sarebbe inquietante. Dunque, come viene tradotto sulla scena della compagnia Fortebraccio Teatro il testo di Jarry?
Latini parrebbe intuire che ancor prima di essere un’icona o un personaggio teatralmente ricchissimo, Padre Ubu e l’intero Ubu Re racchiudono il concentrato di una farsa molto più grande: quella della storia. Ma qui si tocca un tasto assai scomodo per la nostra ipocrisia democratica. Già, perché oggi come ieri la storia è segnata dall’abuso dei potenti sui più deboli: e non è certo la morte di centinaia o migliaia di persone a trasformare questo orribile farsa viril-egotistica in una faccenda meno ridicola e imbarazzante. Ecco, Latini accetta la farsa, accetta che portarla in scena solleverà tante risate quante pugnalate alla bella innocenza democratica; egli accetta la potenza e l’impotenza, ed elabora questa dinamica della tragedia ridicola sviluppandola su più livelli (con una sensibilità e una qualità che molto spesso ricorda il Totò, principe di Danimarca di Leo de Berardinis).
Se l’Ubu Re, infatti, è una rivisitazione umoristica del Macbeth di Shakespeare (un ufficiale che aizzato dalla moglie assassina il suo re, gli ruba la corona, ma poi perde il senso della misura e diventa un tiranno pazzo), Latini inserisce nella propria messa in scena un elemento apparentemente del tutto estraneo. Interpretato da egli stesso, si tratta di un pinocchiesco deunculus ex machina (un po’ à la Bene, un po’ à la Fellini, un po’ à la Castellucci) che con la sua catena al collo agisce da alter ego di Padre Ubu: presagendone da un lato la prossima rovina, evocandone dall’altro l’evoluzione drammaturgica in Ubu incatenato; al tempo stesso quest’essere amplifica, altresì, la dimensione più culturalmente teatrale di Ubu quale personaggio chiave del passaggio alla “modernità” novecentesca (dunque a tutti gli orrori del secolo scorso). Non solo per questo, però, il suo spettro bianco reciterà di tanto in tanto con aria dimessa stralci di opere shakespeariane.
Immaginate un freak (Francesco Pennacchia) che vuole conquistare la corona dell’imperatore degli stracci. Immaginate ora che la corona sia un megafono con cui poter strillare ancora più forte la propria voce; ma immaginate anche che una volta divenuto re questo povero diavolo non sappia assolutamente cosa mai dire (o fare) di regale e cominci a sparare idiozie uccidendo , ancor peggio del suo spodestato predecessore (perché il potere è un morbo che rende tutti ridicoli). Immaginate poi che a spingerlo e a manovrarlo sia una moglie avida (un Ciro Masella magistralmente e misuratamente istrionico, protagonsita indiscusso della farsa), moralmente ancora più discutibile, e che tutto sia il frutto di un miserevole vuoto. Immaginate allora che scoppi la guerra. E che i due, alla fine, perdano tutto per ritrovarsi più miseri di prima.
Ebbene, ora provate a immaginare che uno spettro fatto di dramma puro infesti questa carnevalata, che con la sua vivacità mortifera si inserisca tra una scena e l’altra pronunciando monologhi fra i più gravi e toccanti della produzione shakespeariana costringendoci a ripensare inavvertitamente che tutta questa buffonata potrebbe essere più seria e verosimile e vicina di quanto pensiamo. Immaginate, infine, che la storia, la nostra storia, sia un larghissimo lenzuolo rosso che sotto la finzione della scena oltre i cicli e ricicli, oltre quella sparire e riapparire dei soliti noti ci sveli che sotto a tutto giace uno scheletro (capitale la costruzione scene-luci-suono di Baldini-Mugnai-Misiti).
Ecco, ora chiedetevi chi sia quello scheletro. Pensate a cosa è morto e non è più rinato tra un bagno di sangue e l’altro. Chiedetevi se quello scheletro fosse Padre Ubu, o la vostra innocenza, la vostra umanità, la vostra fantasia; se il teatro fosse quel cadavere, se lì si nascondesse l’incapacità di guardare all’arte (cioè di vivere l’inspiegabile) senza il rifugio sicuro di un compiacimento intellettual-elitario (o qualunque sia il conformismo in cui ciascuno si rifugia). Chi è quel morto? Ha forse ragione Maurizio Cattelan quando afferma che «nessun artista sta dicendo o facendo qualcosa di più forte di quello che sta accadendo nel mondo»? C’è qualcosa che ci sta sfuggendo negli ultimi anni? «Che cosa si è da noi scancellato? Quale semplice formula, che numero, che cifra, che parto rifiutato ha fatto di noi solo un nome e un cognome?» [come scriveva Mariangela Gualtieri nel 2004 per Paesaggio con fratello rotto del Teatro Valdoca] Quand’è che ci siamo destituiti dal vivere, per inseguire una baracconata che sta spingendo, ultimamente, così tanti a morire?
«Sono pronto ad accettare il comando, invaderemo le prigioni e sopprimeremo la libertà. / Urrà! Ubbidiamo! In prigione!» [Ubu incatenato, Atto V, 1]
Forse allora non c’è da sorprendersi troppo che l’Ubu Roi di Fortebraccio Teatro (2011) abbia girato finora così poco. Forse qualcosa è rimasto inascoltato, quel grido sensibile e discreto che Latini sprigiona tra un silenzio e l’altro non è stato intercettato, e ora risuona ancora più duro. Ma certo è che in barba a ogni logica stantia di produzione questo spettacolo dovrebbe (ri)cominciare a girare di teatro in teatro, di città in città, in Italia e all’estero: i direttori artistici hanno pur una responsabilità culturale. Che poi piacerà o meno è indifferente, ma è necessario vedere Latini stringere a sé, sotto il sangue, quello scheletro secco e bruciato per poi domandarci: Chi è quel morto? È l’artista? O sono io? O forse io ne sono il mandante?
Perché, attraverso le parole di Ariel, una risposta in fondo ci arriva:
«Non c’è altro rimedio che il dolore del cuore e, in avvenire, una vita onesta.
Credimi
Credimi
Credimi
E tienimi.»
Letture consigliate:
• Arrostimi, ma di teatro saziami: l’Ubu Roi di Roberto Latini, di Renzo Francabandera (PAC)
• Shakespeare e la patafisica, di Andrea Pocosgnich (DoppioZero)
• Ubu Roi secondo Roberto Latini, di Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin)
• La densa spirale shakespeariana dell’Ubu Re secondo Roberto Latini, di Marco Menini (Krapp’s Last Post)
Potrebbe interessarti anche:
• Tifone – Chiara Guidi, di Giulio Sonno
• Le Giovani Parole – Mariangela Gualtieri, di Giulio Sonno
• Noosfera Museum – Roberto Latini, di Giulio Sonno
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Ascolto consigliato
Teatro Vascello, Roma – 4 febbraio 2016
Crediti:
di Alfred Jarry
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
costumi Marion D’Amburgo
luci Max Mugnai
con Roberto Latini
e con
Francesco Pennacchia, padre Ubu
Ciro Masella, madre Ubu
Sebastian Barbalan, regina Rosmunda/ zar Alessio
Marco Jackson Vergani, capitano Bordure/ Orso
Lorenzo Berti, re Venceslao/ Spettro/ Nobili
Guido Feruglio, principe Bugrelao
Fabiana Gabanini, palotini/ Orsa/ Messaggero
direzione tecnica Max Mugnai
collaborazione tecnica Nino Del Principe
assistente alla regia Tiziano Panici
cura della produzione Federica Furlanis
promozione e comunicazione Nicole Arbelli
foto Simone Cecchetti
produzione
Fortebraccio Teatro
un progetto realizzato in collaborazione con
Teatro Metastasio Stabile della Toscana