Ubu and the Truth Commission – William Kentridge
Secondo Victor Hugo la funzione del grottesco avrebbe avuto un ruolo immenso nel pensiero dei moderni. Sarebbe stato ovunque. Al Teatro della Pergola di Firenze il riallestimento di Ubu and the Truth Commission, spettacolo del 1997 di William Kentridge scritto da Jane Taylor, ne sembra l’onda d’urto.
Da un lato l’Ubu Re, l’inquietante e grottesca figura di Alfred Jarry con il ventre enorme e la spirale, il bastone e la testa piriforme ormai simbolo della faccia oscura e volgare del potere, e dall’altro la Commissione per la Verità e la Riconciliazione varata dal Presidente Nelson Mandela agli inizi del periodo post-apartheid dopo trentaquattro anni almeno ufficialmente di delitti e efferatezze. Ma la pièce anticipatrice delle Avanguardie e del Teatro dell’Assurdo, si innesta con la visionarietà dal sapore antico dell’artista sudafricano William Kentridge e con le marionette della Handspring Puppet Company. Ed è anche così che l’onda si propaga.
“Ma Ubu” crede che l’odore che sente addosso a “Pa Ubu” sia di amante. In verità scoprirà essere odore di sangue e dinamite quando dalla ventraglia di un rettile tirerà fuori le mostruosità di cui Pa Ubu si macchia ogni sera. Sul palco non ci sono solo le nefandezze, le vigliaccherie, la voracità anche sessuale di Ubu Re, ma un vero e proprio circo jarryano, una sinfonia travagliata di un sistema o una struttura tanto estraniante quanto prossimo al vissuto di ciascuno.
Se sulla scena il rapporto tra i coniugi Ubu (Busi Zokufa e Dawid Minnaar, i soli attori in carne ed ossa) trova il suo registro nell’indecisione colpevole e omertosa, negli arresti che magnetizzano ambedue i corpi verso una lordura complice, è sul fondale opaco che quelle difficoltà rivelano la loro pornografia.
Lì, il flusso costante di corpi e figure tratteggiato a carboncino e filmato da William Kentridge, riesce a librarci verso una tentata verticalità che la scena schiacciava. Paesaggi che si trasformano in corpi, megafoni in gatti, le sporcizie di Pa Ubu in teschi, l’iconografia di Ubu Re che si insinua in ogni dove – come il grande occhio che tutto vede ma che Buñuel tagliò. Un montaggio concettuale che chiama noi in platea a ricordare ciò che è stato cancellato ma di cui c’è traccia nel disegno.
Un disegno che, sul fondale filmato, si carica di ritagli di giornale, materiali di archivio, scontri tra Polizia e manifestanti e, sulla scena, delle rivelazioni uscite dalla Commissione e testimoniate da marionette il cui taglio vivo dello scalpello sembra incidere una croce a vita. La loro espressività è curata dai marionettisti (Gabriel Marchand, Mandiseli Maseti, Mongi Mthombeni) che mimano le azioni e parlano la loro lingua. Perché se tutto lo spettacolo è in lingua inglese (sovratitolato), in Commissione si sentono le sonorità sudafricane di dolori verso cui sembra che i mezzi di comunicazione ci avvicinino per poi scoprire che appunto sembra soltanto. È il teatro, piuttosto, e Ubu and the Truth Commission a far sbattere la faccia contro.
È la forza di quelle marionette, anche quando muovono il rettile Niles o l’humour macabro di Cerbero, ad instillare l’orrore e la consapevolezza tragica nello spettacolo: scrivere la storia e fare giustizia sono momenti di un complesso rituale di transizione che determina la rivelazione della verità. Ma la verità di chi non vuole ricordare è la verità di chi non può dimenticare? La memoria che permette di scrivere la storia è la stessa che permette di fare giustizia? Non sono solo domande di una marionetta africana.
(Foto di Piero Tauro: 2014 ©Piero Tauro)