Twin Peaks, 25 anni dopo
David Lynch rompe il silenzio regalandoci 18 ore di esperienza audiovisiva
Before man were mad. Before thrones played games. Before bad was broken. Before the dead walked. Before they got lost. There was wonderful and strange
Nel corso degli ultimi venticinque anni si è detto molto, probabilmente tutto, sull’impatto di una serie come Twin Peaks sull’evoluzione del linguaggio del serial televisivo americano. Mai come con Twin Peaks una forte personalità autoriale è giunta a confrontarsi, sovvertendole nel profondo, con le modalità narrative del piccolo schermo. Ed è interessante osservare come questo rapporto dialettico, tra autori (David Lynch e Mark Frost) e macchina produttiva, si sia dipanato, lungo la realizzazione delle prime due stagioni, in modo a tratti rapsodico, persino disordinato. È nota, per esempio, la frettolosità, palese nella congestionata accumulazione di finali, che caratterizza l’ultimo episodio della prima stagione, figlia della inopinata decisione dei produttori di interrompere bruscamente la serie. Lasciando tanto i fan quanto i suoi creatori nel desiderio inappagato di vedere sviluppate le tante storie che personaggi tanto indimenticabili avevano cominciato a raccontare. È evidente anche la confusione che da un certo punto in poi contraddistingue la seconda stagione, girata, pare, da Lynch navigando a vista, in una sorta di jam session registica all’insegna di una segretezza sul copione tanto rigorosa da lasciare lecitamente supporre che quel copione si facesse davvero, giorno per giorno, in mano agli attori. Una seconda stagione che, dopo un lungo blocco di episodi non memorabili, nel finale sembrava aver ritrovato la sua identità, per concludersi tuttavia lasciando più dubbi che certezze.
È datato 2006 l’ultimo tassello della filmografia di David Lynch, quell’Inland Empire che da subito è sembrato l’approdo estremo, per radicalità espressiva, di uno dei cineasti più straordinari della storia del cinema. Forse davvero nulla poteva venire dopo Inland Empire se non qualcosa che c’era prima di Inland Empire. Sarebbe successo di nuovo. Dopo venticinque anni, con perfetto calcolo metafilmico, Laura Palmer sarebbe tornata, come aveva promesso, a popolare i nostri schermi e i nostri incubi. A dirigere tutti i 18 episodi della terza stagione ci sarebbe stato David Lynch in persona, regalandoci quindi, a distanza di 11 anni dal suo ultimo film, una esperienza audiovisiva lunga 18 ore. Un premio all’attesa e alla fedeltà che nemmeno i più ottimisti tra i suoi fan avrebbero potuto sognare. E la chiusura di un cerchio che ancora alimenta attese spasmodiche in tutto il mondo, a riprova di come la mitopoiesi legata al fenomeno Twin Peaks abbia conservato intatto il suo smalto.
In venticinque anni molto è mutato nel panorama televisivo mondiale, sull’onda di cambiamenti innescati anche da quel primo storico incontro/scontro tra il genio di David Lynch e la televisione americana. Dopo Twin Peaks, e beneficiando enormemente della sua portata rivoluzionaria, le serie televisive americane hanno cominciato ad aprirsi ad un nuovo modo di raccontare, più direttamente legato alla forma cinematografica, per mezzi produttivi e ambizioni artistiche. Non a caso, con sottile ironia, uno dei teaser della terza stagione, cita, per rimarcare un primato di anzianità, alcune delle serie più popolari del terzo millennio. Un’autentica rivoluzione ha stravolto anche le modalità della fruizione del prodotto televisivo. Le generazioni che hanno conosciuto le prime due stagioni solo in dvd o in rete potranno vedere la terza secondo gli standard della tecnologia corrente, con tutto quello che questo comporta, nel bene e nel male. Allarmi planetari si sono susseguiti sulla prematura disponibilità on-demand di alcuni episodi, a Cannes si è obiettato su un passaggio al festival che addirittura segue quello televisivo, sui social (che allora non c’erano) si profila una guerra all’ultimo spoiler e in un lampo si aprirà la corsa, più o meno legale, al download degli ultimi episodi.
In venticinque anni si è modificato anche il cinema di David Lynch, spingendosi verso territori dell’inconscio sempre più remoti, e restando tuttavia coerente con una idea dell’arte che sconfina molto oltre gli ambiti ristretti dell’audiovisione. C’è da augurarsi che la terza stagione di Twin Peaks possa rappresentarne, dopo Inland Empire, un ulteriore punto di non ritorno. Non ci sarebbe allora da stupirsi se, come in più occasioni Lynch ha dichiarato negli ultimi anni, solo i produttori televisivi abbiano avuto il coraggio di investire in una operazione del genere. Nel quadro dei cambiamenti che interessano i meccanismi produttivi del cinema mondiale sempre più grandi registi trovano solo nella TV le condizioni per continuare a lavorare. Nuove sfide, combattute con valori antichi. Una televisione francese ha chiesto a Lynch cosa lo avesse spinto a tornare dietro la macchina da presa nel villaggio di Twin Peaks: “l’amore”, per i suoi personaggi e per il suo pubblico. E di un amore capace di aspettare per un quarto di secolo non si può certo dubitare.