Tutt’a un fratto fu Rezza
La libertà improvvisa nella trappola dell'equazione
Cos’è a dividere il cielo dalla terra? Un orizzonte. Cosa separa un palco dalla platea? Una soglia. E un uomo dall’altro? Un profilo. Ma soprattutto, un individuo da se stesso? Sempre una linea, un fratto che mantiene in costante separazione numeratore e denominatore, una ghigliottina micidiale: specchio bombato, lente graffiata, vetro opaco, il “fratto” è un muro che costringe alla divisione ma che sopravvive ad essa, anche quando tutto scompare. «Si muore per eccessiva semplificazione» (non) spiega Antonio Rezza.
Fratto_X è una performance che recupera la complessità dell’uomo e ne di-spiega la frammentazione attraverso la deformazione di tutto quel retaggio culturale di cui l’uomo contemporaneo si ammanta, illudendosi di costituire un’identità, mentre senza rendersene conto attua un ridicolo processo di banalizzazione autodistruttiva. Il duo Rezza-Mastrella ci mostra dunque (benché sia sempre un’operazione nascosta, affermata per negazione) il lato d’ombra dei (non) rapporti umani, la matrice grottesca e inconsapevole – grottesca perché inconsapevole – dell’apparato sociale, e lo fa con irriverente umorismo e crudele precisione. Il successo dello spettacolo è infatti strettamente legato a queste due componenti.
Flavia Mastrella costruisce un habitat, già di per sé eloquente, attraverso il quale Antonio Rezza può deturparsi e incarnare l’umana mostruosità del quotidiano: il duo non prescinde mai dall’elemento familiare, ogni movimento, ogni contrazione, anche il grido più disumano è l’eco impietosa di un realismo imbarazzante, imbarazzante perché presentato senza finzioni. Tutto è studiato nel dettaglio, meticolosamente, scientificamente, tanto che il meccanismo sembrerebbe funzionare anche senza la presenza del pubblico: chi conosce gli spettacoli di Rezza, d’altronde, sa benissimo che non esiste improvvisazione, anche le apparenti incursioni nello spazio sacro della platea sono già calcolate e vengono ripetute con fredda puntualità. Eppure il pubblico non manca mai. Chi va a vedere uno spettacolo di RezzaMastrella poi ritorna, vuole assistere anche agli altri e non si stanca mai di rivederli. Perché, dunque, dov’è il segreto?
Apparentemente le performance di Rezza sono caratterizzate da una quantità sterminata di elementi che contravvengono al meccanismo di piacere: pause interminabili, ripetizioni e accumulazioni reiterate allo stremo, irriverenza nei confronti del pubblico, dissacrazione, istrionismo; eppure gli spettatori rimangono saldi nei loro posti, terrorizzati di essere presi di mira, ma in attesa paziente e divertita, imbarazzati e smaniosi perfino nell’applaudire. È forse perversione masochistica? No, certamente no. Rezza in realtà con le sue performance dirompenti dà luogo a uno spettacolo completamente inedito e inaspettato: la liberazione dal e del pubblico. Egli non pretende di rivelare alcuna verità né tanto meno di divertire – chi individua nella comicità anarchica il tratto distintivo delle creazioni di RezzaMastrella non ne comprende la complessità e al contempo la semplicità. Per sua stessa ammissione Rezza dichiara di non curarsi della reazione del pubblico, non la prevede, egli crea e distrugge per una propria esigenza espressiva: ciò che appare è ciò che è – netto violento immediato ma spurgato di qualunque concezione stratificata di cultura -, non si vuole dimostrare una tesi né innescare nello spettatore una determinata percezione. Gli spettacoli dunque emancipano, seppur involontariamente (cioè senza alcuna intenzione poetica o programmatica), gli spettatori dal meccanismo di attesa: tanto che quello che sembrava essere uno dei teatri più tirannici e torturatori, si rivela una delle forme di spettacolo più democratiche e liberali. Il pubblico infatti, senza neanche dover intuirlo, si ritrova libero di vedere (o di poter vedere), proprio come il performer è libero di dire e di fare.
Rezza, insomma, sembrerebbe quasi giocare la parte dell’involontario e rabbioso risvegliatore di coscienze, come ad esempio avviene nel finale di Fratto_X: nei panni di un bislacco stregone stringe uno specchio, occhio di luce, che punta crudelmente sugli spettatori forando l’oscurità della convenzione teatrale e dando voce, dittatorialmente, alla massa informe; il suo parrebbe un sadico gioco da specchio ustorio e invece quel faro agisce probabilmente molto più in profondità, oltrepassando il confine dello spettacolo, del divertimento, della risata amara, del pensare, per giungere al semplice e complesso essere, lasciando scaturire un quesito che non dovrà trovare risposta ma che ciononostante solleverà un dubbio nello spettatore: perché sono qui? E così torna alla mente il principio dello spettacolo: «La spensieratezza va stroncata alla nascita». Ecco la summa del teatro RezzaMastrella: negarsi a qualunque senso, spiegazione, interpretazione ma al contempo evocare costantemente pensieri, consapevolezze, prese di coscienza; è come se ci dicessero: “Pensate! Non diteci cosa, non ditelo a nessuno, ma fatelo, per voi e per voi soltanto!”. È una doppiezza senza ambiguità o contraddizione, che ricorda in qualche modo la perfetta macchina ideo-logica de Il banchiere anarchico di Pessoa.
Peccando di semplificazione, dunque, rimane solamente un fratto che lascia sopravvivere morti in vita, uomini che si lasciano parlare dalle parole altrui, che si esprimono per imitazione trasposta e deforme di se stessi, divorati dalle aspettative crudeli degli altri. È paradossale come nella iconoclastia totale di Rezza a sopravvivere siano sempre gli elementi più insospettabili. Così anche in Fratto_X l’unico (non) valore che emerge è il tarlo esistenziale per eccellenza: l’ansia. Ansia che è paura senza oggetto, timore dell’indefinito, ma al tempo stesso grande stimolo al male dei mali, vale a dire la pigrizia quiescente che schiaccia e annulla nella larvalità più remissiva. L’ansia insegue, non lascia mai la presa, bracca l’inattività col terrore del ritorno alla passività delle convenzioni; l’ansia stimola a mettere sotto scacco il tempo. L’ansia è l’unico vero tocco di colore “spensierato” di tutto lo spettacolo, è un’ansia che va di pari passo con l’individuo, rapportata alla sua grandezza o piccolezza, ed è l’unico vero compagno d’esistenza dell’uomo – come non si manca di ribadire: «È un’ansia ossessiva, strutturata, appiccicata all’orecchio, a ricordare tutte le cazzate che fa».
Il meccanismo a orologeria dello spettacolo, insomma, è un meccanismo che ricorda la tremenda macchina da tortura de La colonia penale di Kafka: complesso, intricato, spietato, che se da un lato non vuole e non deve essere compreso (perché non vuole offrire nulla da comprendere), dall’altro non può essere e non deve essere arrestato. Non a caso Rezza tende a mortificare selvaggiamente l’applauso: chi applaude non solo interrompe inutilmente il meccanismo, ma arretra se stesso al ruolo di spettatore e si costringe dunque a comportarsi secondo regole indotte, cioè non scelte. «Lo spettatore è l’anello debole della catena, tutto tramonta di fronte allo spettatore». L’applauso sarà concesso solamente quando le luci si accenderanno e si ritornerà ancora una volta all’allucinazione collettiva.
Ascolto consigliato
Teatro Vascello, Roma – 10 gennaio 2014