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True Detective 2 è finito: l’analisi

Questa seconda stagione della serie culto HBO ha diviso pubblico e critica. Le motivazioni di queste discordanze si possono trovare ad esempio nel cambio di registro rispetto alla prima stagione e nella scelta di non assegnare la regia degli otto episodi a un solo autore. True Detective 2 presenta segni di continuità con la prima stagione, ma se ne distanzia per tematiche e obiettivi: la narrazione lascia per strada il sovrannaturale, fortemente presente nella stagione d’esordio e si addentra molto più a fondo nel genere, costituendo un vero e proprio film noir di otto ore.

La sigla d’apertura è il marchio di fabbrica dello show di Nic Pizzolatto, la musica questa volta viene affidata all’icona Leonard Cohen e alla sua cupa e disillusa Nevermind che, col senno del poi, ci accorgiamo essere la perfetta sintesi di quanto andremo a vedere nel corso dello show.

Questa volta i punti di vista si ampliano, i due della passata stagione diventano quattro: i detective Ray Velcoro (Colin Farrel), Ani Bezzerides (Rachel McAdams) e Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) e il gangster Frank Semyon (Vince Vaughn). Elemento catalizzatore è l’omicidio di Ben Caspere, un funzionario della città (immaginaria) di Vinci. Questo omicidio porta a galla l’enorme fenomeno di corruzione dilagante che tocca ogni angolo della città.

Il mondo di Vinci è sporco, inquinato, sembra non esserci possibilità di redenzione o via d’uscita, tutto si fa opprimente, la rete di criminalità tocca anche gli uffici delle autorità più alte, è una piovra che copre ogni angolo con i suoi tentacoli. Non c’è positività a Vinci. Nemmeno nei protagonisti. Ray Velcoro è il primo ad essere presentato, è un uomo corrotto, nelle mani del gangster Semyon, ma ha avuto un passato pulito: anni prima dello svolgimento dei fatti la moglie venne stuprata e lui uccise il presunto violentatore. Da quel momento la sua vita è entrata in un abisso che è diventato sempre più profondo.

I detective Woodrough e Bezzerides invece sono personaggi relativamente positivi, non corrotti, ma tormentati da un passato torbido che si disvelerà procedendo con la narrazione. Semyon è un gangster arrivista la cui posizione comincia a traballare con l’omicidio di Caspere.

Pizzolato crea una trama molto complessa, una rete d’intrighi che a tratti confonde lo spettatore e lascia qualche dubbio, ma il season finale chiarisce bene il perché. L’autore ha dato precedenza ai personaggi e ai rapporti tra questi a scapito della fluidità di una storia che troppe volte è stata accusata di essersi risolta troppo semplicemente o banalmente. I ruoli si mescolano, s’invertono, ritornano al loro posto. Per alcuni ci sarà redenzione, possibilità di cambiamento, ma non a Vinci, si dovrà andare lontano. Per altri la strada sembra obbligata e anche quando ci sono piccole deviazioni, si torna presto a quello che sembra essere scritto dal primo minuto dello show.

Il finale lascia però intravedere uno spiraglio di luce, anche se starà allo spettatore immaginare come le cose sarebbero potute andare considerato che, se ci sarà una terza stagione (e molto probabilmente ci sarà) gli attori e le vicende cambieranno sicuramente.

La serie parte con il freno a mano tirato, la prima metà procede a velocità costante, con qualche colpo di scena, ma senza regalare entusiasmo. Al giro di boa però gli autori spingono il piede sull’acceleratore e raggiungono livelli drammatici molto alti, riconfermando lo spessore dello show e il grande valore di HBO nel panorama seriale americano (e non solo).

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