True Detective
Possiamo dire di essere fortunati. Quella che stiamo vivendo è una delle ere più brillanti di sempre per la narrativa seriale, che si parli di fumetti, cinema o, nel nostro caso, televisione. Ogni stagione compaiono nuove storie che catturano l’attenzione delle platee di tutto il mondo, raccontate con modalità originali e proposte in fruizioni sempre più differenti da quelle che sperimentava il pubblico solo venti anni fa. Succede però che una di queste storie riesca ad elevarsi dal mucchio e a settare nuovi standard, alzando l’asticella oltre quanto si pensava possibile, coinvolgendoci in maniere nuove e inaspettate. Quella storia è True Detective.
Innanzitutto, un plauso ad HBO che si dimostra scaltra come pochi nel fiutare i progetti giusti e a portarli al successo, dato che di serial incentrati sulla ricerca di un killer dalla spiccata fantasia nell’esecuzione delle sue vittime non ce ne sono pochi. Qui sta il bello: come tutte le storie di grande successo, True Detective pone questa cornice narrativa come pretesto per poter affrontare molti altri temi, forse troppi per una serie di sole otto puntate, ma che riesce ad affascinare e ad ammaliare come pochi prodotti sono riusciti a fare.
Dal punto di vista produttivo, la serie si accosta al rifiorito genere dell’antologia, riportato in auge con alti e bassi da American Horror Story, il quale permette di cambiare setting e cast di stagione in stagione, garantendo freschezza ad ogni nuova annata ma anche prestando il fianco al fuoco amico del paragone-con-la-stagione-precedente. Come questa struttura non si rivela innovativa, non lo è neanche lo schema interazionale che vede due protagonisti dai caratteri opposti dover collaborare per forze maggiori: è qui che interviene la qualità di scrittura di Nic Pizzolatto, autore di tutte le puntate, a dare carattere a elementi così classici quanto l’idea da letteratura pulp della detective story di provincia.
Partendo dal cast, True Detective (insieme ad House Of Cards) è la definitiva consacrazione del piccolo schermo come catalizzatore dell’attenzione dei grandi divi hollywoodiani, i quali non hanno più paura di sporcarsi le mani con la Tv, anzi. Woody Harrelson (Martin) si riconferma interprete quanto mai eclettico, calandosi nella parte di un padre di famiglia in crisi, messo alle strette da un caso che sta seriamente minando quel poco di pace che gli era rimasto dentro sé. Dedito all’alcolismo e a qualche scappatella di troppo, la sua vita diventa difficile da gestire quando incontra Rustin, il suo nuovo collega con cui segue l’omicidio di Dora Lange, assassinata con uno strano rituale che si dimostrerà essere solo la superficie di una intricata rete di delitti.
La vera fortuna di True Detective sta nell’aver ingaggiato un attore come Matthew McConaughey, all’apice di un’annata d’oro che lo ha visto vincere l’Oscar come miglior attore e ad essere presto inviato nello spazio dal comandante Christopher Nolan. È il suo Rustin Cohle la figura centrale della serie, misteriosa ed enigmatica, sempre dedita al lavoro, ad una costante osservazione del mondo intorno a lui, analizzando le persone che lo circondano e smascherandone le bugie, le insicurezze, le verità mancate.
Il tema della verità è quello che scorre con maggior forza nelle viscere di True Detective: ciò che noi affermiamo e ciò che noi pensiamo nel profondo, ciò che nascondiamo e ciò che lasciamo filtrare. La struttura narrativa della serie vive di questo: dislocata su due piani temporali, il 1995, anno dell’indagine, e il 2012, quando i due detective vengono interrogati proprio sul caso Lange, permette allo spettatore di indagare sui buchi e le omissioni che vengono a contrasto fra il racconto di Martin e Rustin e quello che noi vediamo accadere nei flashback, dando vita ad un mistero che porta con facilità a divorarsi tutta la serie in poco tempo.
Aggiungete a tutto questo una Louisiana dai paesaggi onirici e poco accoglienti, i quali protendono visivamente gli orizzonti tematici della serie dandogli nuove forme e colori, e una colonna sonora curata da quel T-Bone Burnett già dietro alla sensazionale soundtrack di A proposito di Davis dei fratelli Coen e potrete avere un’idea di cosa vi aspetta.
Se vi spaventerà nei primi episodi il ritmo lento e riflessivo che non sembra volervi accogliere, ma piuttosto respingere, non abbiate paura. Come recita la canzone che accompagna gli straordinari titoli di testa, è solo una vicenda oscura ed inquietante che, come un serpente a sonagli, vi ospita nelle sue spire e, lentamente, senza che ve ne accorgiate, vi stringe a sé. E da quel momento, non c’è più nessuna via di fuga.