Cosa separa giovinezza, età adulta e vecchiaia? Solchi di dolore, sentimenti a scadenza o frammenti di ricordi idealizzati?
Una volta chiusa la porta del piccolo teatro trasteverino Formiche di Vetro, si avverte subito la sensazione di essere finiti in una bolla di memoria: la prima percezione ad alterarsi è proprio quella temporale.
Con un linguaggio asfittico – fatto di parole smontate e rimontate – e gesti convulsi, quasi allucinati, si palesa sulla scena un figlio (Luca Trezza, autore, regista e interprete unico) che ha perso la madre e la cerca, disperato e confuso, per i vicoli di un non-luogo fatto di madonne mute attaccate alle pareti e discoteche farcite di vita chimica. Ecco che anche la percezione spaziale comincia a distorcersi. Se tempo e spazio, dunque, sembrano indefiniti e infiniti, diventa invece chiarissimo il meccanismo innescato dallo spettacolo: il primo algoritmo di questo Trittico del mio byte sarà pertanto la separazione.
Poi, le luci illuminano di ombre la scena e accordano i sussulti di voce ai movimenti, ora plastici e controllati, ora schizzati e violenti, rendendo quasi impercettibile il cambio di ambientazione: un cantante neomelodico, vittima imperfetta trapassata dall’amore, racconta la realtà corrotta in cui viveva prima di ritrovarsi in uno stato di nebbiosa beatitudine post mortem. Il secondo «byte», allora, non potrà che essere la perdita.
Spazio e tempo fanno un altro giro di vite, e sulla scena ora si consuma una via crucis sintetica dell’esistenza. È un accumulo di vita tòrta su se stessa: il terzo solco scavato e scovato dall’autore-attore diventa lo smarrimento. Un vecchio cieco à la Krapp si consuma ascoltando vecchie registrazioni, incise forse per scolpire viva la vita sul nastro del ricordo; ammalato com’è di “artereosclerosi digitale”, tutte le notti ripete la sua storia a un cane, ultimo appiglio della ragione contro la solitudine.
Luca Trezza, insomma, accompagna il pubblico nell’esplorazione di quelle zone d’ombra che segnano il passaggio forzato da un’età all’altra, evocando dolore, perdita e, appunto, smarrimento. Forse però, alla fine di questo accumulo forsennato di parole gesti ed emozioni prepotenti, allo spettatore non rimane più la forza per scoprire se una via d’uscita da questa gabbia di sensi che causa l’aritmia di un cuore piccolo come un Byte (una limitata cella di memoria) ci sia.
Per difendersi forse, non resta che «stare noi stretti-stretti – più vicini – mentre ‘sta guerra moderna di chiamate, sms e trilli e post di bacheche virtuali invade. Ci invade.»
Separazione, perdita e smarrimento: un’operazione chirurgica di alienazione che alimenta la vigliaccheria di chi sopravvive di paura, bypassando le emozioni dall’aorta alla ragione.
Teatro Formiche di Vetro, Roma – 7 giugno 2015