Il viaggio (troppo) intenso negli inferi
La ‘Trincea’ di Marco Baliani
L’attore è tra tutti gli artisti colui che mette in gioco sé stesso fino in fondo: sacrifica il suo corpo, la sua identità per la storia che deve raccontare. Un sacrificio estremo che lo lascia senza difese e in balia del personaggio che deve interpretare. Una sacralità sciamanica, la sua, che rivela tutta la forza evocatrice dell’arte di riportare in vita storie e racconti.
Questo è uno dei tanti modi di essere attore, efficace perché rende al meglio la caratterizzazione del personaggio, ma rischioso perché tende a mettere in risalto l’emotività rispetto alla forma scenica. Marco Baliani intraprende questo cammino difficile e sulla scena di Trincea diventa in tutto e per tutto lo spettro di un soldato della Prima Guerra Mondiale.
È lui, nell’aspetto smagrito ed emaciato dall’inferno, che ci racconta questo mondo popolato da uomini che hanno perso la cognizione d’essere umani: burattini, fantocci in balia di un destino per cui la morte sembra essere l’unica via d’uscita.
Sulla scena questo Robinson Crusoe della guerra e dell’orrore è solo, a fargli da spalla il cadavere di un compagno e le immagini della Prima Guerra Mondiale.
L’esaltazione della guerra contro la caducità del corpo umano e anche della mente, segnata in maniera irreversibile. Così, i reduci diventano più vittime dei morti, e i disertori, che hanno scelto di sottrarsi alla follia, i traditori più infami, eroi mancati di pace che capirono presto la disumanità efferata del dissennato progetto che li vedeva protagonisti.
Parla anche di questo lo spettro di Baliani, il ribaltamento dell’eroe di guerra, che non è più l’uomo che resiste e combatte, ma quello che di fronte all’orrore scappa per restare umano. Una denuncia forte, soprattutto nei confronti di un Paese, l’Italia, che ancora non ha perdonato i disertori condannandoli per sempre all’oblio e al marchio di infami e traditori della patria.
Un destino che Trincea tende a rivalutare mostrando le atrocità della guerra. Follie di fronte alle quali era lecito disobbedire. Efficace a questo proposito la resa emotiva di certi particolari come la macabra sfilata dei volti dei soldati coperti dalle maschere anti-gas, oggetti che rendono in maniera perfetta il concetto di disumanizzazione dell’essere umano.
Lo spettacolo di Baliani è un viaggio duro in un inferno dal quale si vuole solamente scappare via presto, una fotografia viva che spinge lo spettatore a voltare la testa dall’altra parte, a chiudere gli occhi di fronte ai corpi martoriati e mutilati. Difatti, l’interpretazione di Baliani è caratterizzata da un’immedesimazione forse eccesiva, che serve da specchietto per le allodole per mascherare qualche pecca drammaturgica di cui lo spettacolo risente.
L’attore ha scelto una strada difficile per portare in scena il suo personaggio e i suoi racconti. In parte il lavoro è riuscito, sicuramente si esce dal teatro colpiti, ma forse troppo, quasi storditi. Un’esperienza talmente emotiva da diventare stancante.
(Foto ©Marco Parollo)
Letture consigliate:
Milite Ignoto. Quindicidiciotto – Mario Perrotta, di Nicola Delnero
La storia sottratta all’oblio: la Grande Guerra rivive in Friendly Feuer, di Elena Cirioni
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 18 maggio 2016