Donne maschiliste, donne spezzate
Donne secondo Trend. XV edizione al Belli
Nonostante tutte le difficoltà in cui versa il teatro, per fortuna r-esiste Trend, la rassegna dedicata alla drammaturgia britannica curata da Rodolfo Di Giammarco all’interno del Teatro Belli, che ogni anno propone un fertile terreno di scambio fra drammaturgia britannica e messinscena italiana, articolato in una programmazione di spettacoli e mise en espace sempre varia e di qualità.
La XV edizione non fa certo eccezione; se vogliamo, l’unica e più clamorosa differenza, rispetto agli altri anni, è che nel frattempo la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Europa, corroborando forse il sentimento di britishness – e chissà se questo non avrà delle ripercussioni anche sul teatro futuro. Intanto, continuiamo a seguire con attenzione la drammaturgia d’oltremanica che, con una tradizione molto più radicata di quella italiana e con il solito piglio diretto e un po’ irriverente, riesce sempre a captare in modo più o meno incisivo i turbamenti della società, dell’essere umano, o di entrambi contemporaneamente.
Girls like that di Evan Placey, per la regia brillante, asciutta e limpida di Emiliano Russo, illumina il lato oscuro del femminismo per sezionare impietosamente cosa si nasconde dietro la libertà della donna nell’epoca dei social, facendo scaturire così una serie d’interrogativi che purtroppo non sono così lontani dalla realtà dei fatti di cronaca. Qual è il confine tra pornografia e libertà ai tempi della tecnologia? Tra pubblico e privato? E qual è il prezzo da pagare quando la donna crede di essere libera ma rimane ancora prigioniera di meccanismi radicati così profondamente nel sistema patriarcale che finisce inconsapevolmente per alimentare?
E v a n P l a c e y
Click. Flash. Selfie. La vita delle quattro scolarette protagoniste (Giulia Gallone, Flavia Mancinelli, Diletta Masetti, Ottavia CH Orticello) è scandita dalle solite notifiche, quando un giorno in classe ne arriva una diversa dal solito: si tratta di una foto nuda di Scarlett, “la troietta”, che fa presto il giro del web, seguita da un’altra foto del suo ragazzo (autore della diffusione ma certamente senza colpe), che suscita ben altri commenti. Fra stacchetti da discoteca (coreografie Monica Scalese), perbenismo da manuale e chiacchiericcio maligno, le quattro – inarrestabili e impeccabili – daranno pieno sfogo alla loro vacuità starnazzante esplorando il testo sagace e incisivo di Placey che mescola abilmente storia privata (l’”amicizia” superficiale pronta a sgretolarsi), archeologia del femminismo (nelle parentesi dedicate alla lotta per l’emancipazione delle loro madri) e una lucida riflessione sulla psicologia del bullismo senza però “psicologizzare” i personaggi, aspetto che Russo ben evidenzia caratterizzando le ragazze come fantocci di sé stesse che fra le loro sfumature non emotive nascondono una mancanza di empatia raggelante. Ecco dunque che Placey in modo impercettibile crepa davanti ai nostri occhi anni di lotte per l’emancipazione femminile per mano delle donne stesse: ciò di cui le perfide scolarette non si rendono conto è che il diverso trattamento riservato alla foto di Scarlett (la troietta) e dell’amico (il figo) ribadisce i cliché maschilisti che le loro madri avevano combattuto così duramente per vedere aboliti.
Con A girl is a half-formed thing di Eimear McBride, mise en espace a cura di Giuliano Scarpinato e Elena Arvigo, e Ifigenia in Cardiff di Gary Owen, primo studio di Valter Malosti, ci addentriamo invece nelle pieghe di un mondo più introspettivo. Sono due storie di donne ugualmente allo sbando ma ciascuna a suo modo; due vite spezzate, due racconti struggenti che prendono corpo in due grandi interpreti: Elena Arvigo e Roberta Caronia. Da un lato c’è il paesaggio rurale dell’Irlanda cattolica e perbenista, dall’altro l’ostilità grigia di Splott, sobborgo industriale alla periferia di Cardiff. Da un lato il rapporto fra un fratello malato di cancro e una sorella maggiore disperatamente in cerca di sé; dall’altro Effie, la “sgualdrina” sbronza senza passato né futuro, e un presente fatto di niente, personaggio a metà strada fra Trainspotting e i film dei fratelli Dardenne per l’indagine sociale che sottende.
A n n i e R y a n
La storia della “ragazza a metà”, troppo fragile per trovare una completezza in sé stessa, è la corsa folle verso la sua auto-distruzione: un vertiginoso racconto-flusso di coscienza che riproduce il ritmo spezzato e sconnesso di una mente instabile, addentrandosi sempre di più nell’incubo senza più riuscire a tornare indietro. Arvigo si fa lei stessa l’orlo del baratro su cui è sempre in bilico: unica attrice e narratrice su un palco sovrastato da cappelli sospesi come identità fantasma e disseminato di terra e leggii (scenografie Alessandro Di Cola). Lei è la sua voce, quella del fratello amato, della madre austera, dello zio abusatore e quella di tutti coloro che si sentono in diritto di aggredirla fisicamente o metaforicamente: cuore pulsante di dolore e rabbia mai affettato o patetico ma sempre misurato che riesce a rendere visivamente paesaggio esteriore ed interiore in ogni sguardo, ricordo, o rimozione del pensiero.
Ma se A girl is a half-formed thing – di un’alta qualità letteraria (l’adattamento teatrale di Annie Ryan nasce infatti dal best seller di Eimear McBride) – si fa carico di un fardello emotivo troppo ingombrante per lasciare spazio ad altro, Ifigenia in Cardiff riesce ad andare oltre la – pur tragica – vicenda di Effie per dar vita a una riflessione che trascende l’individualità e ingloba la società tutta. Qui non c’è nessuna famiglia, né tantomeno Agamennone in procinto di sacrificare la figlia: il padre si è volatilizzato e riassorbito nella società stessa che fagocita senza pietà gli outsider, quelli per cui ogni dovere è scontato e ogni diritto una conquista.
G a r y O w e n
Eppure, pur nell’assenza di Agamennone e della guerra di Troia, il testo corrosivo, mai moralistico o vittimistico di Owen, è ugualmente permeato dal sacrificio. È quello di Marc, il soldato tornato dall’Afghanistan del quale Effie s’innamora, che in guerra ha perso la gamba insieme a un po’ della sua umanità. È quello di Effie – una notevole Caronia nervosa, sanguigna e sensuale, sola in una scena spoglia alle prese con un sempre più difficile e doloroso one woman show – che deve sacrificare sua figlia per un sistema di austerity che non permette le cure adeguate per un parto prematuro (per le persone come Effie, s’intende). Alla fine, quando sarebbe il suo turno di sacrificare qualcuno, con un movimento uguale e contrario all’Ifigenia in Aulide, Effie decide di non immolarsi più al perverso meccanismo sociale di vendetta e conseguenza, ed è qui che finisce la tragedia greca e inizia il perdono, per sé stessa e per la sua vita, e per quella di tutti gli altri.
Sono tre spettacoli, certo un numero esiguo rispetto ai tre mesi di programmazione di Trend, che però già testimoniano una diversa declinazione di stili, generi e approcci interpretativi. Tre preziosi tasselli di contemporaneità, legati in particolar modo alla donna, che se da un lato attraversano paesaggi e problematiche tipicamente british, dall’altro, per la loro universalità permettono anche a un pubblico più ampio di riflettere e riflettervisi.
Ascolto consigliato
TREND, Teatro Belli, Roma – 20 novembre, 6 e 12 dicembre 2016