Tre camere a Manhattan – Georges Simenon
“Solitudine” è la parola che meglio descrive la nostra società odierna in crisi, ed è anche il tema principale del romanzo Tre camere a Manhattan (Adelphi, 2015) che Georges Simenon ambienta in una New York lugubre e ostile.
Nel descrivere lo spazio urbano, Simenon ricorre ad una scrittura visiva tale da evocare la violenza cromatica di Edward Hopper e l’intimità perturbante di Jack Vettriano.
Proprio in un bar, che pare uscito da Nighthawks (I nottambuli, 1942) di Hopper, avviene il casuale incontro tra un uomo (Combe) e una donna (Kay) irrimediabilmente soli.
Col procedere della narrazione, Combe instaura con Kay un amore simbiotico ai limiti dell’ossessione, dato forse dal fatto che lei, come New York, gli sfugge costantemente: se da un lato l’inafferrabile seduzione della donna lo attrae enormemente, dall’altro questa stessa attrazione lo spinge ad odiarla fino a desiderare di farle del male.
Il legame tra la donna e lo spazio urbano viene ribadito poi dal fatto che lo svelarsi del personaggio di Kay corrisponde al percorso da lei compiuto attraverso tre camere d’albergo. In ciascuna di esse, Combe scopre “non solo una Kay diversa, ma nuove ragioni per amarla, e un nuovo modo di amarla”.
Ma può davvero definirsi amore il rapporto tra i due protagonisti di questo sublime romanzo di Simenon? “Sublime” è etimologicamente “ciò che è al limite” e, secondo Edmund Burke, esso “agisce in modo analogo al terrore”.
Sublime è perciò la parola che meglio descrive il legame tra Combe e Kay il quale, scambiato per amore, non è altro che un rapporto di dipendenza affettiva dell’uno nei confronti dell’altra.
Questo spiega l’ambivalenza aggressiva di Combe verso Kay, che è una donna capace di “misura[re] tutta la profondità della […] solitudine di un uomo”.
Nello specifico, il dramma di Combe è esattamente quello vissuto dall’uomo contemporaneo non più in grado di sostenere il ruolo di superiorità assoluta che la società si ostina ad assegnargli.
Combe capisce che Kay gli è indispensabile per potersi ricostruire.
Questa presa di coscienza, che coincide con quella della propria fragilità umana, viene però distorta e diventa per lui sinonimo di sottomissione e fallimento. Egli sente allora il bisogno di sminuire ed annientare Kay; ma così facendo si chiude in un circolo vizioso e cristallizza la donna in un atteggiamento sfingeo, in quella stessa dimensione inafferrabile che la caratterizza all’inizio del romanzo e che lo tormenta:
…[Kay] ascoltava con le labbra socchiuse, mentre il fumo della sigaretta le saliva dritto davanti al volto, come fosse incenso.