Vive Verdi?
L'aria si fa contemporanea a Orizzonti Festival 2016
Certe volte il caso ci mette lo zampino. Questo ci viene in mente quando arriviamo al piccolo borgo senese di Chiusi, quasi sul confine umbro, per assistere al Festival Orizzonti avendo appena lasciato Monticchiello con il suo Teatro Povero, sempre un piccolo borgo e sempre a Siena. I due appuntamenti estivi, separati da trenta chilometri o poco più, sono diversissimi nel merito e nel metodo, eppure qualcosa li accomuna e non è solo la provincia territoriale.
Entrambi si interrogano, ognuno con il suo specifico modo, sul presente, cercando di disseppellire anche un passato – quello di una tradizione, di una comunità o di una nazione, ad esempio – per scoprire se oggi abbia ancora qualcosa da dire.
Se Monticchiello, come vi abbiamo raccontato, ci è sembrato aver risposto manifestando l’esigenza di un intero paese di soffermarsi tra un passato evocato e un futuro proiettato (tuttora inafferrabile); Chiusi invece pare quasi far propria la frase di Picasso «Everything you can imagine is real», (ri)costruendo un possibile immaginario intorno alla follia, tema di questa XIV edizione.
Follia anche di produrre La Traviata, un’opera che è classica per eccellenza, e di inserirla in un Festival multidisciplinare delle “nuove creazioni delle arti performative” che, perciò, non include solo teatro, ma anche danza, letture, musica, incontri, laboratori, mostre, e in cui per l’appunto spunta fuori anche il nome di Giuseppe Verdi.
Ma che cosa ha da dire Verdi a un Festival che ospita, ad esempio, le sperimentazioni di Ricci/Forte, Roberto Latini, Quotidiana.com, o la danza contemporanea di Abbondanza/Bertoni, Collettivo Cinetico o Zappalà? E ai suoi spettatori?
Forse quel che ha da dire non riesce a dirlo tutto, né fino in fondo, ma ci prova, e intanto la sensazione è quella di sentirsi un po’ come in Ritorno al Futuro: in viaggio in una macchina del tempo piacevolmente in folle, e familiare, che traccia direzioni inattese seguendo coordinate impost(at)e da un mondo 2.0.
Così ci ritroviamo in una Traviata che si distingue per “contemporaneità” fin dai suoi modi di produzione: l’opera infatti sarà suonata da un’orchestra “stabile” sorprendentemente composta da giovanissimi strumentisti (che hanno seguito un processo formativo e performativo che li ha portati e li porterà fuori dai teatri); sarà diretta dallo spagnolo Sergio Alapont, maestro internazionale; e verrà allestita e riadattata da Angela Dettori (regista), Alessandro Lanzillotti (scenografo e costumista), Sandra Beaudou (light designer), vincitori del Bando indetto ad hoc dalla Fondazione Orizzonti d’Arte.
Ma anche lo stesso Verdi non sfugge al suo destino “pop”, quasi ce l’avesse inscritto nel nome. Quel nome che ieri era acronimo di patriottismo – W Vittorio Emanuele Re D‘Italia – e che oggi torna ad essere in lizza, con il suo Nabucco, nella sempr’eterna polemica su quale sia l’inno giusto per un’Italia la cui unità evidentemente va ancora rammendata.
Ecco allora che l’Opera, La Traviata, Giuseppe Verdi si mostrano –anche – per quel che oggi rappresentano: icone monumentali alla cui ombra resiste uno spirito romantico, deviato e deviante, che giunge fino a noi con tutto il suo fascino maledetto.
Il punto allora è: come far parlare quest’eredità?
La si può far dialogare con il presente, sembrano rispondere sia il direttore artistico Andrea Cigni sia l’opera stessa fin dal suo preludio. Lievi luci blu scoprono a poco a poco i protagonisti del melodramma: scorgiamo Alfredo (Giuseppe Distefano) che tenta di arrivare a Violetta (Anna Corvino), ora per porgerle le rose, dopo per farne sua sposa; ma sarà ostacolato da altissime strutture rotanti, sempre in scena, ingombranti quanto la presenza di una società moraleggiante che non permette la loro unione: nell’Ottocento un giovane di buona famiglia d’altronde non poteva accasarsi con una cortigiana, né oggi potrebbe sposare una diva dello star system che si compiaccia tanto di “lasciarsi piacere”.
Il salotto parigino di Verdi diventa allora un set cinematografico, e Violetta una diva circondata da uno stuolo di ammiratori che credono di brillare con lei ma si dimostreranno animali a sangue freddo quasi tutti pronti ad abbandonarla appena si avvicina il buio. Non a caso le luci della ribalta che circondano lo specchio del suo camerino saranno le stesse che ne illumineranno la croce: un successo da portare da sola, nell’omertà di una società che la vuole o perfida prostituta per sempre in vita o creatura angelica per sempre nella morte, ma sposa mai.
Questo matrimonio non s’ha da fare, scriveva Manzoni e così la pensa anche il padre di Alfredo, Giorgio Germont (Giuseppe Altomare) che pur fatica a contenere le sue lubriche meschinità nei confronti di Violetta, in una scena dove musica, interpretazione e regia riescono a farci sentire un’assonanza tristemente contemporanea, e non solo per via dei vestiti, o di un alcova stile Ikea, ma perché tocca una storia sempre squallida nella sua attualità.
In questo modo il colosso verdiano ci mostra screpolature inattese ma riconoscibili, le stesse che la musica, a tratti inverosimilmente sussurrata, sembra non aver mai smesso di cercare lungo questi tre atti.
Forse dunque la “contemporaneità” de La Traviata va cercata proprio qui, nel desiderio stesso di ritrovarla, lungo un continuo dialogo che dalla tradizione può arrivare fino a noi, se solo riusciamo a metterci in ascolto. Se è di questo che si tratta, allora Orizzonti Festival (e ancor più perché ospita l’opera) è certamente “contemporaneo”, perché capace di mettere in comunicazione le tanti arti performative intorno a un’idea, a una comunità, a una città, a chi riconosce insomma come sua questa follia.
A Monticchiello uno spirito folle, cinquant’anni fa, spinse l’intero paese a salire su un palcoscenico per raccontare un presente che non aveva alcuna intenzione di arrestarsi; quello stesso spirito oggi risolleva un Festival che non guarda più, ormai, agli ostacoli del tempo e delle culture ma che ha imparato ad accogliere ogni voce: un dialogo per il futuro cui anche i Chiusini più conservatori cominciano a voler prendere parte.
Trenta chilometri son passati e ci sembra di aver assaggiato i frutti folli di uno stesso seme. O i folli siamo noi a non volerlo coltivare?
• Andrea Cigni a Chiusi: quattro OrizzontiFestival e un matrimonio. L’intervista, di Matteo Brighenti (PAC)
• Traviata e i Simpson si incontrano a Chiusi, di Nicola Arrigoni (Sipario)
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Ascolto consigliato
Orizzonti Festival, Chiusi (SI) – 29 luglio 2016
Crediti ufficiali: