Tra pratica e teoria
La ricerca permanente di Teatro Akropolis
Perché di fronte alla realtà che mi circonda dovrei produrre un’immagine?
Se lo domanda e ce lo domanda David Beronio nell’ottavo volume Teatro Akropolis.Testimonianze ricerca azioni che anche quest’anno ha accompagnato la nuova edizione dell’omonima rassegna genovese ideata e diretta insieme a Clemente Tafuri.
Partiamo da qui, perché quella di Akropolis è una realtà multiforme. Non si tratta di un festival tout court né di una compagnia in senso stretto, eppure potrebbe essere ascritta a entrambe le categorie. Akropolis, infatti, è anche una sala teatrale, una residenza artistica e una casa editrice.
Riprendiamo allora la domanda iniziale e allarghiamone il raggio dall’arte alla politica culturale: perché nel contesto teatrale in cui ci troviamo (e quello ligure, fatte poche eccezioni, non brilla particolarmente – governante Forza Italia men che meno) si dovrebbe articolare una proposta tanto composita, pertanto impegnativa? O detto volgarmente, chi glielo fa fare?
Un primo indizio lo troviamo tra le pagine di un’altra recente pubblicazione di Akropolis – Rappresentazione e visioni dionisiache (2017) –, dove Tafuri e Beronio evidenziano come nel teatro l’uomo abbia la possibilità di riconoscersi
attraverso un’esperienza collettiva di condivisione della vita stessa. Qual è dunque questa forma? È l’immagine dell’uomo come non è. Come non è nella sua esperienza quotidiana, come non è quando la società, la politica, perfino la cultura lo definiscono e ne tracciano i limiti.
Ecco allora che il segno di Akropolis nella sua complessa articolazione si fa chiaro: perseguire una ricerca attraverso il e nel teatro significa attivare una comunità latente – il pubblico –, che nel trantran quotidiano è portata invece all’inconsapevolezza del proprio potenziale “visionario”. Anziché lanciarsi alla proposta di contenuti immediatamente allettanti, dunque, Tafuri e Beronio decidono di sviluppare un contenitore fortemente connotato.
Si illude, infatti, chi crede che il teatro si risolva nel valore degli spettacoli o nell’apprezzamento degli spettatori; certo, si può produrre intrattenimento da un lato e gongolare di fronte al grande attore o al regista di punta dall’altro, ma il teatro è innanzitutto un rito sociale che scatena una visione. E che cos’è la visione?
La visione non è l’oggetto di uno sguardo ma il suo riflesso in chi lo volge.
Non si tratta insomma di guardare ma di ri-guardare, in tutti i sensi, cioè di animare – guardando – ciò che si manifesta a noi. Partecipare: pars-capere, prendere parte. Stabilire una relazione in cui «spectare» sostanzi l’essere «spectati» e viceversa.
Che cosa vuol dire tutto questo in termini più concreti? Prendiamo a esempio lo spettacolo OVVIO del Kolektiv Lapso Cirk, andato in scena al Teatro Akropolis nella terza settimana della rassegna.
Non abbiamo qui una storia da seguire né una finzione ad arte di cui ammirare l’elaborata e impeccabile maestria, no, è tutto abbastanza esposto: una dozzina di palanche, dalla spanna ai due metri, accostate a due a due in successione, come una sorta di domino progressivo; qualche oggetto sparso (corde, sedie, travi di legno) e non molto altro. David Diez Mendez e Tomas Vaclavek cominciano così a dar vita a numeri di equilibrismo: qualcosa cade, qualcosa si sostiene, qualcosa rimane sospeso innaturalmente. Giocolieri della precarietà, i due si destreggiano negli spogli ambienti creati e distrutti sul momento tra gaffes buffonesche e la continua ombra del fallimento.
A ogni nuovo tentativo di improbabile stabilità sul baratro della caduta il pubblico trattiene il respiro, freme in tensione, scatta istintivamente quando sembra che tutto stia per venire giù. OVVIO è molto meno “spettacolare” di quel che l’etichetta «circo» darebbe a credere (a ragione Matteo Brighenti su PAC parla di «circo senza circo»). Perché? Perché non invita alla contemplazione, scatena piuttosto la più sincera empatia: l’empatia di chi si ritrova spontaneamente a condividere una paura, quasi fosse egli stesso a rischiarne. Qui ciò che accade è ciò che è; né improvvisazione né ripetizione collaudata; è l’«ora» per l’«ora». Proprio quanto una buona fetta di teoria teatrale postula da anni: il teatro come accadimento nell’effimero.
Consapevole? Inconsapevole? Voluto? Casuale? Poco importa. Qui il teatro accade senza tante colte premesse.
D’altro canto, invece, sarà per nobile spirito di ricerca, sarà per senso di emarginazione, sarà per attrarre l’attenzione di certa critica o per difendersi dalle chincaglierie del cosiddetto pop, fatto sta che ultimamente è un abbondare di note di regia alquanto pretestuose: tanto più che questo bel dire raramente trova un vago riscontro nel fare. Studiare sarà anche un bel segno di curiosità, serietà, maturità, ma per fare ricerca non è obbligatorio attingere ad ampie mani alla filosofia del Novecento. La nostra opinabile impressione è che nove su dieci questo eccesso di ispirazione – esplicitata (ché altrimenti ci sarebbe poco da sospettare) – non nasconda altro che un bisogno di autolegittimazione, nonché un prono assecondare certo classismo culturale che allontana chi si sente mortificato da tale eccesso di riferimenti spingendolo a rifugiarsi, più che comprensibilmente, nel vituperato mainstream.
Questo è il rischio, a nostro avviso, corso dai due studi di venti minuti presentati il 29 aprile, sempre al Teatro Akropolis, all’interno della «Serata Anticorpi EXPLO» (Akropolis fa parte di Anticorpi XL, la rete nazionale per la danza d’autore). È innegabile che tanto Davide Valrosso quanto Roberto Orlacchio (in coppia con Nicola Marrapodi) siano ottimi danzatori, accurati, puliti, rigorosi, ma la visione coreografica, almeno nelle versioni brevi mostrate, ci è parsa alquanto debole, inficiata da movimenti prevedibili, transizioni schematiche, partiture dimostrative. Come ricorda la danzatrice Alessandra Cristiani nel volume citato in apertura
Danzare sapendo di dover concretizzare un’idea, di dover tenere fede a una struttura spaziale o temporale rigorosamente stabilita, limita la sensibilità, la creatività del danzatore, ma soprattutto restringe la gamma di possibilità che potrebbero verificarsi in seno all’azione danzata. Il danzatore deve essere in grado di sintonizzarsi su ogni minima percezione proveniente dall’interno del suo corpo ed accogliere e lasciare che la danza venga modificata da elementi esterni.
Certo, si può anche apprezzare soltanto la pulizia del gesto e il fascino della fisicità messi in campo, ma forse è troppo rassicurante. Si agisce-reagisce (palco-platea) principalmente a livello intellettuale-culturale. Manca la visione. O per riprendere le parole di Beronio la domanda rimane inevasa:
Perché di fronte alla realtà che mi circonda dovrei produrre un’immagine?
Sono interrogativi fondamentali quelli che pone e propone Akropolis. Necessari. Sostanziali. Un mese di seminari, convegni, incontri, danza, teatro, performance, circo, distribuiti da Sestri Ponente al Palazzo ducale di Genova. Di fatto, Tafuri e Beronio portano avanti una ricerca che nella sua attuazione pratica si fa politica culturale a tutti gli effetti, meritevole di maggiore respiro, e disponibilità, perché è ciò che dovrebbe fare un teatro pubblico e che il teatro pubblico troppo spesso non fa.
Ciò che è mancato a questa edizione, forse, è stata una maggiore incisività nella proposta teatrale, che restituisse uno sguardo più vivace della scena nazionale (più o meno sotterranea) nonché più vicino – in primis nella pratiche – alle riflessioni promosse da questa raffinata realtà ligure.
Perché ciò che il teatro può attivare va oltre il piacere. O come afferma il filosofo Colli in dialogo con Fersen – autori di cui Akropolis sta tenendo viva, ancor prima che la memoria, l’eredità (citiamo ancora da Rappresentazione e visioni dionisiache) –:
Penetrando in questa parte più intima di noi stessi attraverso queste esperienze, noi non soltanto ci spogliamo di tutte le sovrastrutture della vita quotidiana, di quello che noi crediamo reale e scopriamo non essere più reale, nel senso che l’interesse che noi portiamo per le cose che ci stanno attorno viene in questo momento a cadere totalmente e noi scopriamo noi stessi come qualcosa che non ha nulla a che fare con quella che si manifesta quotidianamente come la nostra personalità limitata: ma questo noi stessi profondo a un certo punto non è neanche più qualcosa di individuale. Ed è in questo che consiste la comunicazione teatrale.
Ascolto consigliato
Teatro Akropolis, Sestri Ponente (GE) – 28-29 aprile 2017