Quante volte si paventa il disastro? La minaccia nucleare, la catastrofe naturale, l’apocalisse: sembra sempre che debba succedere un gran finimondo perché la razza umana giunga all’estinzione. Al Cometa Off di Roma, invece, arriva lemme lemme uno spettacolo come Tortuga e tutto a un tratto quel futuro immaginario prende un nuovo aspetto: magari un pizzico sgangherato, sì, ma certo non per questo meno verosimile.
Ventiduesimo secolo, o giù di lí. L’umanità si è estinta. Unici sopravvissuti due curiosi individui: Marcus, l’ultimo uomo sulla Terra, e Tortuga, una tartaruga mutante, antropomorfa, dotata di parola. E tutti gli altri? Morti, ma dalla noia, perché non avevano più niente da raccontarsi. Ecco allora che i due superstiti, per non cadere vittime della stessa sorte, cominciano a scambiarsi storie, o come direbbero loro a «racca’» (raccontare). Già, perché dopo la catastrofe anche la lingua ha cambiato forma e si è mutata in un bizzarro patois di idiomi e dialetti, italiani e stranieri, rimpastati in un esilarante parlata dalla vaga eco “brancaleonesca”.
A un certo punto, però, finiscono «li storioni» e allora i due decidono «de fa’ no travello» per non morire di noia. Sarà così che il candido Marcus (Lorenzo Gioielli) insieme al fido Tortuga (Andrea Monno) si imbarcherà in un avventuroso viaggio nel deserto dove dovrà affrontare tre prove (esistenziali), superate le quali potrà infine giungere a quella sorta di luogo edenico che è l’agognata “foresteria”: fine dell’avventura o principio di un nuovo inizio?
Nonostante l’apparente semplicità, lo spettacolo ideato da Lorenzo Gioielli è una macchina scenica tutt’altro che banale, dietro la quale si nasconde un raffinato lavoro di scrittura tanto linguistico quanto drammaturgico. Tortuga (regia di Virginia Franchi), infatti, è un racconto che racchiude egregiamente in sé tutti gli elementi della fiaba “classica”, tanto da dimostrare che non si tratta di una storiella buffonesca bensì di una vera e propria leggenda mitologica sulla contemporaneità.
Vista la sua genesi, insomma, c’è da augurarsi che Tortuga continui ad evolversi e a sorprendere con la sua toccante semplicità: una semplicità così profonda da far pronunciare a un «microbo» il contrappunto, poetico e lucidissimo, dell’intero spettacolo: «C’è qualcuno che può udire questo mio grido di terrore? Sono rimasto da solo? Cosa è rimasto delle grandi battaglie, del sollevarsi delle genti? Perché non sento più musica o poesia? Tutto è vanità… vanità delle vanità”.