Tom à la ferme - Xavier Dolan

Tom à la ferme – Xavier Dolan

C’è un filo rosso che unisce tanti dei film di questo settantesimo concorso veneziano: la famiglia. Il nucleo cardine dell’affettività a volte frammentato e a volte oppressivo, luogo da cui fuggire o a cui nostalgicamente ritornare. La famiglia che manca e quella che sarebbe meglio mancasse. Il cuore pulsante delle storie di questo festival è spesso il ricettacolo di tutti i traumi e le devianze, esplosiva matrice di violenza e dolore. Da Miss Violence a Child of God, da Philomena a La moglie del poliziotto, per non parlare del Moebius di Kim Ki-duk. Persino in film come Gravity e Parkland corre una tematica familiare sotto traccia, mentre la sua assenza mina le adolescenze di Gerontophilia e Palo Alto.

Non sfugge il giovanissimo (classe 1989) canadese Xavier Dolan a questa tendenza che ogni giorno appare sempre più una scelta consapevole dei selezionatori di Barbera. Il suo Tom à la ferme, prima volta per lui nel concorso principale di un grande festival (ma reduce già da un premio a Cannes in Un Certain Regard), è appunto costruito intorno a una famiglia, a un lutto, e a un segreto che lotta per venire alla luce. Tom (interpretato dallo stesso Dolan) è un ragazzo che si reca nella campagna del Quebec per il funerale del suo compagno. Vi trova una madre ignara e un figlio maggiore che sa tutto ma che è pronto anche alla violenza pur di mantenere la finzione sulla vita di un fratello lontano e prematuramente scomparso.

Dolan costruisce il suo film tutto sul concetto di verità e finzione dei rapporti. Uno sviscerare continuo delle dinamiche relazionali interne alla famiglia, un’indagine della pressione a cui sono sottoposti sentimenti come l’amore figliale e l’orientamento sessuale, la responsabilità e la menzogna, la rabbia e l’attrazione, in un bacino di coltura ristretto e isolato come la fattoria e la piccola comunità di cui fa parte. Una pressione alla fine negativa e destabilizzante che crea un ambiente dove non c’è spazio né per la sincerità né per la felicità.

Ma il film non convince davvero fino in fondo, pare restare in superficie, collocarsi su un terreno di ambiziosa ricerca senza essere sostenuto da una sufficiente qualità di base a livello di sceneggiatura e regia. Tra le cose da salvare la delineazione di un personaggio oscuro, complesso, difficilmente incasellabile e naturalmente carismatico come quello di Francis, il fratello del defunto, e qualche alzata d’ingegno stilistica, come la particolare scelta in alcune scene topiche di restringere il formato dell’inquadratura, come per incorniciarla abbassando le tendine dell’otturatore.

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