Timbuktu è una città del Mali, situata nella parte meridionale del deserto del Sahara, a venti chilometri dal fiume Niger. Grazie ad alcuni dei suoi monumenti, come la splendida moschea Sankore, fa parte dal 1988 del patrimonio dell’Unesco, ed è stata persino proposta come una delle sette meraviglie moderne. Ma in quest'opera del regista mauritano Sissako, candidata agli ultimi Oscar come Miglior film straniero, la bellezza della città e la suggestiva peculiarità della sua posizione diventano prigioniere del fondamentalismo, che azzera l'atmosfera del posto ed erige la sua assurda architettura di odio, prevaricazioni e costrizioni.
Una milizia islamica si impadronisce della città e costringe i suoi abitanti a vivere seguendo regole crudeli e prive di senso: è vietato sedersi davanti alla propria abitazione, praticare sport, fumare il tabacco, ascoltare musica e suonare. Le donne, inoltre, sono obbligate a indossare dei guanti e a coprirsi gran parte del volto. Pesantissime, ovviamente, le pene per chi si rifiuta di obbedire.
Prendendo spunto da fatti realmente accaduti, Sissako fa quindi dimenticare l’incanto del luogo, trasformandolo in un esempio di potenziale inferno senza logica. Il disagio in cui gli abitanti di Timbuktu sono costretti lo si coglie bene in alcuni campi lunghi, in cui le loro sagome diventano piccole e indifese pedine del paesaggio che quasi fatalmente si confondono. Con precisa, fredda brutalità, unita a un finissimo sguardo privo di momenti gratuiti durante le visioni più violente, viene delineato un microcosmo di quotidiana tumultuosità dove l’Islam moderato e pacifico dei cittadini di Timbuktu è succube della violenza ridicola di quello più estremo.
Oltre a descrivere la drammaticità della situazione, Sissako fa percepire il sapore amaramente kafkiano del meccanismo assurdo di questa serie di imposizioni e dei controlli: vediamo più volte il gruppo di estremisti che, quasi indifferenti, controllano la zona, penetrano nei suoi meandri più intimi, ronzano continuamente ai suoi margini, come un perimetro in perpetuo movimento che soffoca e assedia un’area pacifica.
Il mezzo però più potente usato dal regista è quello della metafora, che si stende su scene di base di assoluto realismo (di grande potenza, ad esempio, la sequenza in cui un gruppo di ragazzi, nei pressi della città, finge di giocare a calcio con un pallone invisibile, accompagnati da una musica extradiegetica malinconica): un lirismo che se per un verso rende la visione più soffusa e poetica, dall’altro non fa che acuire l’indignazione dell'autore e il contesto violentemente “distopico”.