Tigertail
Nel suo film d'esordio, Alan Yang mette in scena la propria esperienza personale, tra vicissitudini migratorie ed esistenziali.
Dopo aver costruito una buona carriera televisiva, culminata con la produzione Netflix Master of None, Alan Yang coglie il momento favorevole per piazzare un film dal carattere spiccatamente biografico. Sceneggiatore americano, al suo debutto sul grande schermo, Yang riversa con Tigertail le vicissitudini migratorie ed esistenziali del padre nel personaggio di Pin-Jui, trasferitosi da Taiwan a New York per cercare fortuna.
La scelta, nel dipanare la materia, ricade sull’utilizzo di diversi piani temporali per altrettanti momenti della vita di Pin-Jui. Il primo è ambientato nella suggestiva campagna attorno a Huwei (“Tigertail”), luogo dell’infanzia del protagonista e necessariamente simbolico per l’intera narrazione. Il placido paesaggio delle risaie rivela però insidie quando la storia del Pin-Jui bambino intercetta quella con la S maiuscola e, infatti, l’esercito del Kuomintang –Partito Nazionalista Cinese- setaccia le abitazioni dopo le tensioni fra Taiwan e Cina. Questa finestra temporale viene tuttavia prontamente accantonata in favore di un Pin-Jui più attempato, alle prese con una complicata intesa con la figlia. Nel mezzo, temporalmente, si collocano i ricordi di un’esistenza travagliata che lo ha portato alla decisione di emigrare negli Stati Uniti, grazie ad una sorta di matrimonio combinato. Ci sono tanti temi in Tigertail, di quelli che accomunano il genere umano, come la ricerca di migliori condizioni di vita, i rapporti spezzati da decisioni dolorose e l’inevitabile pratica di tirare le somme. Giunto a New York, Pin-Jui ridimensiona la portata del sogno americano, non ballerà, come auspicato in un dialogo con il suo vero amore, con Faye Dunawey ma riuscirà quantomeno a trovare stabilità lavorativa. Quella emotiva, invece, rimane interrotta tra la separazione dalla sbiadita figura della moglie, mai effettivamente tale, e il fugace ricongiungimento, dal sapore di tentativo di fuga amorosa, con l’amata Yuan.
Yang, abile a padroneggiare gli stilemi comedy, attinge ora agli ingredienti del dramma mantenendo costante il registro per tutti i novanta minuti. La cifra stilistica della storia di Pin-Jui è la chiarezza espositiva, fugando ogni possibile ambiguità e rendendo eccessivamente didascalici i passaggi temporali ma, conseguentemente, annacquando la tensione narrativa. Il dramma esistenziale di Pin-Jui non conduce a colpi di scena altisonanti, non è gridato bensì sussurrato e vissuto in punta di piedi mantenendo una sua dimensione di riserbo. Questa è traducibile nell’incomunicabilità tra il Pin-Jui genitore, capace di essere vagamente premuroso e nulla più, e la figlia Angela. Interessante e riuscito il cortocircuito linguistico tra cinese mandarino, taiwanese e inglese, probabilmente l’elemento più esplicativo del disagio nella peregrinazione.
Tigertail è un film che racconta una storia semplice, probabilmente non memorabile, permeata di riferimenti biografici senza facile retorica e, anche per questo, indiscutibilmente sincera. Distribuito direttamente da Netflix fra le novità di aprile 2020, questo film conferma la tendenza del colosso dello streaming on demand ad attenzionare una certa produzione indie. Dopo il successo della produzione seriale della quale si è accennato, ratificato dalla vincita dell’Emmy Awards, Tigertail rappresenta uno spartiacque nella carriera di Alan Yang. Se, infatti, le indiscrezioni di una presunta trattativa con i Marvel Studios, per la lavorazione di un prossimo film, fossero confermate, questa prima fatica di Yang finirebbe per essere appena annoverata negli annali e semplicemente ricordata soltanto come incompiuto esordio.