I can’t understand what you can find to talk about […] I am not blaming you. I see people ashore at it all day long, and then in the evening they sit down and keep at it over the drinks. Must be saying the same things over and over again. I can’t understand.
Un tifone in fondo è come parlare: masse d’aria che vorticano velocemente attorno a un vuoto. Ed è in questo cerchio imponderabile che ci trasporta il Tifone di Chiara Guidi, un occhio magico in cui noi, pubblico del Vascello, osserviamo attoniti la tempesta mentre questa prende forma tutto attorno.
Sul palco solamente il pianoforte di Fabrizio Ottaviucci e il leggio di Chiara Guidi; sullo sfondo due superfici tonde, oblò oscurati, illuminati da dietro come due eterne eclissi sospese tra la ragione e la paura; al centro della scena, in ombra, una grande bilancia-barometro, vuota, indice cieco delle pressioni che il racconto marinaresco di Joseph Conrad farà gravare in sala.
È buio. Ottaviucci lascia sussurrare, piano, la tavola di legno davanti a sé, come evocasse già il Nan-Shan, l’imbarcazione che al largo del mare cinese andrà incontro alle forze della natura. La voce esitante del pianoforte si interrompe e comincia ad alzarsi quella di Guidi. Bastano pochi istinti per capire che non si tratta di una lettura scenica. C’è un leggio, sì, ci sono dei fogli, sì, ma la storica fondatrice della Societas Raffaello Sanzio non legge, né recita—anima. Le parole schiumano, si impigliano, si spezzano, si rincorrono: personaggi e storia, dubbi e rumori, paura e silenzio; nella rete dei microfoni che circondano l’attrice riecheggia tutta la potenza ambigua – per noi uomini – del mare.
Nel racconto di Conrad, d’altronde, non è la trama ad essere importante; ciò che, piuttosto, rende notevole Tifone è il terrifico confronto con quel mostro di aria che gonfia le paure e inabissa le identità. E difatti, mentre le voci complementari di Ottaviucci e Guidi si alternano nella ricostruzione più profonda del testo, una strana luce, pallida, serpeggia alle spalle di noi spettatori: è uno spauracchio che di tanto in tanto giunge a graffiare gli occhi, incombendo, silenzioso, sulla nostra tacita presenza, come il presagio di quel tifone che pian piano sopraggiunge o verso cui, forse, siamo noi a non poter fare a meno di volerci appressare.
Ma come quella nota sicura che batte nei tasti del pianoforte e nelle voci affastellate dell’equipaggio, ogni volta ritorna l’imperturbabile quiete del capitano MacWirr. La nave rolla in balia del mare, il primo ufficiale Jukes soffia come un gatto che sta per annegare, i coolie cinesi in coperta – come quei dollari d’argento che ripongono nervosamente nelle loro cassette di legno – tintinnano nervosi sotto il ponte; ma egli non si scompone. La tempesta monta, terrorizza, divide, eppure il placido capitano tiene la barra dritta, non teme la sua stessa immaginazione, e ci accompagna così al confronto con il limite: siamo sicuri che lungo il nostro camino si pari un tifone? Perché ci spaventa l’ignoto? Da cosa vogliamo fuggire in realtà?
Tifone, dunque, si sottrae alla rappresentazione per penetrare nelle pieghe nascoste delle nostre percezioni: Ottaviucci non suona, Guidi non parla, noi non guardiamo né ascoltiamo; è un farsi incontro gli uni agli altri, spaventati e incuriositi, per ritrovarsi in punta di polpastrelli a sfiorare quel cerchio magico che è al centro di ogni nostro imponderabile tifone.
Semplicemente una delle più intense esperienze teatrali dell’anno.
Teatro Vascello, Roma – 16 aprile 2015