Latella, Fassbinder e la trappola dell’omaggio
A proposito di 'Ti regalo la mia morte, Veronika'
Ti regalo la mia morte, è l’unica cosa che ho.
Partiamo proprio da qui per parlare di Ti regalo la mia morte, Veronika, da quella battuta-chiave pronunciata da Veronika Voss che Antonio Latella prende a titolo del suo spettacolo: un omaggio alla poetica del grande regista tedesco R.W. Fassbinder che parte proprio dal suo penultimo film – Veronika Voss (1982) – per aprirsi a una riflessione più approfondita sull’analisi della donna.
Partiamo da questa frase, si diceva, perché sono parole che assurgono a un livello di disperazione tale da racchiudere non solo la vicenda di Veronika Voss ma quella di tutte le donne che costellano l’universo cinematografico di Fassbinder. Figura complessa e sfaccettata, la donna nel suo cinema non ha vita facile: fragile, sempre sul punto di spezzarsi, ma allo stesso tempo desiderosa di libertà e indipendenza; incline ad amori mai realizzati, infelici e distruttivi perché – come nelle pièce di Čechov – ama sempre la persona sbagliata.
Se rimane solo la morte da dare in dono, allora, che ne è di un‘intera vita? Miserabile è quella di Veronika Voss (Monica Piseddu), attrice prestigiosa della Germania nazista, ormai in declino dopo la disfatta del Terzo Reich; morfinomane, trapiantata in un presente che non sa più riconoscere, ossessionata dal terrore di essere dimenticata. Il suo grido ci coglie di sorpresa al Teatro Argentina: neanche il tempo di spegnere le luci e lei è già sul palco, ancora più pallida nel suo cappotto rosso; le sue prime parole sono un’invocazione di aiuto rivolta al pubblico insieme a una presa di coscienza ben consapevole del suo ruolo: «Io non recito più nessuna parte». Sembra quasi di sentire l’eco dell’Hamletmaschine di Heiner Müller, certo è che questa prima frattura meta-teatrale (prima di una lunga serie) mette subito in chiaro che i meccanismi consueti dell’illusione mimetica saranno scardinati dall‘interno.
Una fila di sedie di un vecchio cinematografo, un proiettore 16 mm che attraverserà a più riprese il palco sul carrello: questo luogo della gloria che fu e ormai del ricordo sarà ben presto infestato dai fantasmi del passato di Veronika, che irrompono in scena, chiassosi e grotteschi, sottoforma di gorilla albini. Sono proiezioni allucinate di una mente alterata dalla morfina, emanazioni dirette di quel telo di pelliccia argentata sul fondale su cui un magistrale gioco di ombre (alTREtracce) proietterà ora il ritratto di Veronika, ora di R.W. Fassbinder, come se fossero l‘una il doppio dell‘altro. In fondo, due facce di una stessa malattia corrosiva, che pure ha il potere di rendere esistenti: il cinema.
Languidamente sparsi lungo le sedie, i gorilla inizieranno allora a pungolare, a incalzare, a interagire con Veronika, mentre abbandoneranno man mano i loro costumi per essere forgiati sempre di più come personaggi e non più come fantasmi. Più le battute si susseguono, più è chiaro infatti che stiamo rivivendo la vita di Veronika, o meglio, il suo film, sempre filtrato però dal suo sguardo deformato e sempre ricordandoci di essere in un teatro a osservare quindi una finzione al quadrato, se non alla terza o alla quarta. Troppo complicato?
Ricapitolando, il film Veronika Voss verrà decostruito e decontestualizzato davanti ai nostri occhi creando così un forte effetto straniante dovuto all’intersezione fra i vari piani dello spettacolo (il «qui e ora» meta-teatrale, la finzione del film, le allucinazioni); come in un gioco di specchi, questi si rifletteranno l’uno nell’altro, si sovrapporranno, si confonderanno e – c’è da dirlo – disorienteranno. Ripercorriamo così la triste parabola di Veronika – la cui vita sembra una transizione da una dipendenza all’altra, si chiami successo, amore o morfina –, la relazione ambigua con il cronista sportivo Robert Krohn (Annibale Pavone), chiamato dalla platea a recitare la parte; il rapporto torbido con l’autoritaria e controversa dottoressa Katz (Estelle Franco), al contempo fornitrice di morfina, madre e amante, che la soggioga a livello materiale e psicologico; e ancora l’ultimo, disperato, tentativo di tornare a recitare che la farà scivolare ancora più velocemente nel baratro della depressione e della dipendenza.
Monica Piseddu è un incredibile fascio di nervi e muscoli proteso all‘infelicitàche non riesce a scrollarsi di dosso: al contrario, ci convive, trae forza dalla disperazione anche con accenti inaspettatamente ironici, riuscendo a dare densità a ogni pausa, espressione, o camminata nervosa. Insieme a lei, gli altri attori del cast (oltre ai già citati, Valentina Acca, Caterina Carpio, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa) non sono da meno, il ritmo scorre seguendo il battito interno di un’anima spezzata, amplificato dalle suggestioni musicali create ad hoc da Franco Visioli. E allora, si dirà, dov’è il problema?
Il “problema” è che la formula-omaggio a Fassbinder dall‘essere una potenzialità si tramuta anche nel suo più grande limite. Il meccanismo di “sceneggiatura svelata”, infatti, poiché non prevede un vero sviluppo ulteriore (come succedeva invece in Natale in casa Cupiello), si rivela così una trappola da cui non riescono a liberarsi riflessioni di più ampio respiro che possano trascendere la citazione, l‘ammirazione o la comprensione della poetica fassbinderiana. Succede infatti che quella stessa sceneggiatura – con tanto di lettura di didascalie, contaminazioni con altre opere, interruzioni, (auto)citazioni – rimane troppo eterogenea, frammentata e autoreferenziale per lasciare davvero il segno nel pubblico, che si ritrova di conseguenza relegato in una zona franca in cui rimane testimone tutto sommato distaccato di una vicenda chiusa in sé stessa e che si autoalimenta dei suoi stessi rimandi, come fosse un organismo autosufficiente.
Donare la morte sarà così l’ultimo, estremo atto di libertà: il suo trapasso lascia intravedere uno splendido aldilà čechoviano. Al centro, un grande albero rigoglioso, che non è altro che il cinema di Fassbinder: un regista che in tredici anni di febbrile attività ci ha regalato un cinema ruvido e icastico, popolato dalle piccole storie “dell’indifesa vita umana individuale”, direbbe Kantor, dove l‘outsider rivendica con forza la sua legittimità a esistere al cospetto di quella Storia più grande di lui in cui si intreccia il proprio destino. Ora le donne dei suoi film sono tutte lì, sotto quell’albero, oltre la morte, quindi felici: Maria Braun, Martha, Elvira, Margot, Veronika—piccoli tasselli di un mosaico di contraddizioni dell’essere umano che il regista bavarese ha saputo comporre in modo così lucido e disperato.
Letture consigliate:
•Veronika Voss, Latella, le scimmie, di Rossella Menna (DoppioZero)
• Antonio Latella e Veronika di Fassbinder… in dissolvenza, di Andrea Pocosgnich (TeatroeCritica)
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 2 febbraio 2016