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The Wolfpack – Crystal Moselle

Ripararsi occasionalmente dalla luce talvolta inopportuna della realtà, delle cose e delle persone può essere salutare, voltare del tutto le spalle isolandosi così dal mondo, invece, pericoloso. The Wolfpack, opera dell’esordiente Crystal Moselle vincitrice del Gran Premio della Giuria nella sezione Documentari al Sundance Film Festival, racconta la storia della famiglia Anguno, di una prigionia così sui generis da sembrare quasi incredibile: uno smisurato timore della società, del governo e delle possibili insidie di una metropoli come New York spingono un padre seguace del culto Hare Krishna a segregare sin dalla nascita i propri figli – sei maschi e una femmina – nel loro appartamento nel Lower East Side, privandoli dell’uso di computer, internet, cellulare e di qualsiasi contatto con gli altri, e ad affidare alla madre il compito di educarli al posto di una vera scuola. Unica boccata d’aria concessa ai ragazzi in questa asfissiante “protezione” è la possibilità di usufruire dell’ampia videoteca di casa, che li trasformerà in dei veri e propri cinefili occupati tutto il giorno a riprodurre con entusiasmo scene di celebri film indossando i costumi dei vari personaggi. Un isolamento lungo quattordici anni, rotto in via assolutamente eccezionale da rare e brevi “escursioni” nei dintorni, fino a quando un tentativo di fuga sovvertirà le regole di questo soffocamento.

Vecchi video dei membri della famiglia ripresi durante la giornata fra le loro stanze, testimonianze dirette dei ragazzi e, nell’ultima parte, anche dei genitori aiutano l’occhio discreto ma incisivo della regista a inserirsi tra le fessure di questa surreale claustrofobia per raccogliere tracce di un’utopia fallimentare in partenza, a cercare di afferrare ciò che si cela dietro un padre che, con candore e senza malizia, continua ad affermare di aver isolato i figli solo per il loro bene.

«I film liberano la testa», sosteneva Fassbinder, un’affermazione che viene più volte in mente a vedere i sette intenti a ingannare la propria dolorosa frustrazione di reclusi rievocando con energia i momenti clou di pellicole come Le iene o Halloween. Un modo per non impazzire, certo, ma che non può chiaramente affondare del tutto la loro angosciosa consapevolezza di doversi limitare a contemplare dalla finestra solo un’infima porzione di una delle “città di realtà e vita” per eccellenza come New York, di essere paradossalmente ad anni luce di distanza da ciò che si trova appena al di là dei vetri della loro casa.

Una traumatica sensazione che ha abitato a lungo le vite di questi giovanissimi, e che non li abbandonerà definitivamente neanche quando riusciranno finalmente ad abbattere le pareti di quella cella e a conoscere la nozione di libertà.

Grazie


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