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Angles – The Strokes

Era il 9 Giugno 2010 quando al Dingwalls di Camden Town, in una qualsiasi serata di live music londinese come tante altre, sale sul palco una sconosciuta band dal nome strano e curioso, Venison. Uno li guarda e realizza subito che c’è qualcosa che non torna: il viso conosciuto del cantante, la voce “di uno che suona al citofono della tua vita e chiede permesso d’entrare” (cit.), i suoni taglienti e trascinanti. Ci mettono poco, quelle cinquecento fortunate persone presenti quella sera, a realizzare che davanti a loro hanno gli Strokes.

Così arriva il ritorno live, a San Gallo, raccontato su questa rivista da Alessandro Blangetti e adesso questo Angles. E’ che ritrovarli così, oggi, dopo tanto tempo, fa un certo effetto. Cinque anni sono bastati per, nell’ordine: scoprire che Fab Moretti si è lasciato con Drew Barrymore e ha pubblicato un disco solista o quasi (il progetto Little Joy), vedere Albert Hammond JR perdere i capelli, e infine ascoltare Julian Casablancas dire che “tutto quello che fa come solista gli dà sensazioni positive, mentre il lavoro con gli Strokes gli dà sensazioni negative” (cit.). Logico chiedersi cosa sia rimasto di quella band.

Al primo ascolto la sensazione è straniante. I suoni sono familiari ma non troppo, e si assiste ad una virata sonora che tende all’electro-rock e strizza sfacciatamente l’occhio a gran parte degli anni ’80, come già era possibile percepire dalla grafica retrò di copertina. Con il passare degli ascolti si realizza poi come questo Angles sia un disco molto diverso dai precedenti, non certo brutto, ma che potremmo definire forse un po’ freddo, meccanico e privo di quel “qualcosa” che aveva caratterizzato gli Strokes della prima era. Per fare un paragone, ritrovare gli Strokes così oggi è come ritornare a suonare con un amico con cui per anni hai passato serate e nottate in un garage, scambiandosi anima e corpo in un tutt’uno con la musica, e ritrovarlo dopo tanti anni un po’ floscio, invecchiato, un po’ imbolsito, a dirti che non ha più l’età per certe cose. Julian e soci, oggi, lasciano questa impressione.

Detto ciò, resta comunque il giudizio su un album che rimane gradevole all’ascolto: colpiscono in particolare Machu Picchu, la traccia d’apertura che strizza più d’un occhio, ai limiti legali del plagio, a Down Under dei Men@Work, ma che certamente è uno degli episodi più riusciti. Two Kinds Of Happiness è una canzone dei Cure suonata dai nostri, ha tiro e passo, e si fa ascoltare in successione con piacevole cadenza. Stesso discorso per Taken For A Fool, forse la migliore, e Life Is Simple In The Moonlight, mentre giudizio negativo per Under Cover Of Darkness, il singolo di lancio che, a parere di chi scrive, è un tentativo maldestro di riproporre il suono Strokes degli esordi nel contesto attuale, e forse si poteva evitare.

Mettiamola così: è apprezzabile che gli Strokes vadano alla ricerca di un percorso nuovo, che vi sia in quest’album, come appare evidente, l’ambizione di evolvere le sonorità che hanno caratterizzato la band e provare ad aprire un secondo capitolo della loro carriera. Quello che manca, come già detto, è l’anima trascinante che avevano i precedenti lavori, al cui confronto il presente Angles, pur certamente non disprezzabile, non regge la sfida. Ecco, magari potevano pubblicarlo sotto il nome Venison. Forse, così, ci avremmo creduto.

Grazie


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