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The Old Man & The Gun

Un film che omaggia Robert Redford, e il suo mito, nell'ultimo ruolo della sua carriera

82 anni, 80 interpretazioni, 10 regie, 2 Oscar, l’impegno civile mai dismesso, il ruolo riconosciuto di padre putativo del cinema indipendente americano, oltre mezzo secolo di attività, un posto inamovibile tra le icone più grandi del cinema di tutti i tempi. Cosa avrebbe potuto chiedere Robert Redford all’ultimo ruolo della sua carriera se non Going out with style?

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Se nelle intenzioni dello stesso Redford, oltre che interprete anche produttore del film, l’obiettivo era questo, The Old Man & The Gun sicuramente non sbaglia la mira. David Lowery, classe 1980, reduce dall’interlocutorio A Ghost Story (2017), imbrocca senza esitazioni la strada giusta e coreografa il perfetto canto del cigno per una autentica leggenda di celluloide. Girato in un plumbeo e granuloso 16mm, ideale per l’occasione, il film racconta l’ultima tournée dell’anziano galeotto Forrest Tucker, specializzato in rocambolesche evasioni e chirurgiche rapine in banca. Sulle sue tracce si muove John Hunt, un giovane poliziotto con famiglia al seguito e gravoso fardello lavorativo, incarnato da Casey Affleck, abulico e privo di motivazioni prima di scoprire la vita e le opere del misterioso rapinatore gentiluomo.

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Tucker è tutto quello che Hunt avrebbe voluto essere: senza legami, fuori da ranghi e uniformi, protagonista di una vita romantica e avventurosa, tenacemente aggrappato al proprio culto della libertà. Hunt ha tutto quello che Tucker rimpiange: 40 anni, una bella e multietnica famiglia vicino, un lavoro onesto, una vita da vivere. Completano il cast volti leggendari come quelli di Sissy Spacek, Tom Waits, Danny Glover e Keith Carradine. Supportato da un partèrre attoriale di questo livello, tanto affollato di grandi interpreti quanto, all’opposto, ne era quasi completamente privo “A ghost story”, Lowery, come nella sua opera precedente persegue la strada della sottrazione, stavolta lasciando spazi e tempi adeguati ad interpreti tanto preziosi.

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Si avvera così il piccolo miracolo di un film che, con semplicità e delicatezza, riesce proprio laddove era facile sbagliare: sul versante della nostalgia di un tempo (e di un cinema) lontano ma sempre presente, non a caso evocato da Lowery, senza mai scadere nel patetismo, in due bellissime sequenze. La prima è un omaggio diretto a Strada a doppia corsia di Monte Hellman, film che proprio Redford in prima persona si impegnò a preservare e rilanciare quando, nei primi anni ’80, rischiava di finire nel dimenticatoio. La seconda è un tributo ai tanti heist-movie che hanno costellato la filmografia del Redford attore, a cominciare da quel La Caccia di Athur Penn, che nel lontano 1966 contribuì in modo decisivo a lanciare la sua carriera. La scena, non potrebbe essere altrimenti, è tutta per lui. Per quel ladro gentiluomo attempato e solcato dalle rughe, libero e sorridente, che rapina banche senza mai impugnare la pistola. Forse perché non ne ha mai avuto bisogno. Del resto, come cantava Kris Kristofferson, in the end only the losers hold the land under the gun.

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