I registi danesi, questo è indubbio, stanno pian piano scalando le gerarchie della cinematografia internazionale. Esempi? Lars von Trier è in breve tempo diventato uno dei registi più noti e influenti del cinema contemporaneo; Thomas Vinterberg, da Festen a Il sospetto, ha conquistato un posto di rilievo a livello planetario; Nicolas Winding Refn (Bronson, Drive), invece, continua ad ammaliare il pubblico con la sua poetica violenza. Tra questi nomi cerca di inserirsi anche Mikkel Nørgaard, regista del film Keeper of Lost Causes, proiettato nel corso della quarta edizione del Nordic Film Fest.
Base di partenza per Nørgaard, coadiuvato dallo sceneggiatore Nikolaj Arcel (Uomini che odiano le donne) è l’omonimo best-seller scritto da Jussi Adler-Olsen, tradotto in Italia da Marsilio con il titolo di La donna in gabbia. Il pluripremiato romanzo dello scrittore danese è uno di una serie di quattro thriller che ha venduto complessivamente quasi sette milioni di copie in tutto il mondo. Questo è il primo capitolo, dunque, di quella che si prospetta una lunga e redditizia serie di adattamenti cinematografici.
Dopo una sparatoria che coinvolge due suoi colleghi, l’agente investigativo Carl Mørck (Nikolaj Lie Kaas) viene trasferito al Dipartimento Q reparto per casi irrisolti dove si ritrova a lavorare con il suo nuovo assistente Assad (Fares Fares). Nonostante il suo compito sia quello di archiviare i casi, dopo un solo giorno di lavoro, il testardo agente coinvolge il suo collega in un caso misterioso: la scomparsa di Marete Lynggard (Sonja Richter) da un traghetto avvenuto cinque anni prima. L’unico testimone della vicenda è il fratello cerebroleso della presunta vittima e da questo piccolo e irrilevante indizio i due si avventurano in un viaggio che li porterà sulle tracce del killer.
La fotografia cupa e l’imperturbabile freddezza espressiva del protagonista sono le note positive del film. Le riprese, girate nella maggior parte dei casi in interni, esasperano il clima tenebroso creato dall’asciutta macchina da presa del regista. L’unica pecca della pellicola è quella di sparare le sue cartucce abbondantemente prima della fine: l’avvincente climax, ossia la risoluzione del caso, viene mostrato troppo presto rendendo il finale prevedibile, e, dato che il genere di riferimento è il thriller, si potevano e dovevano cercare formule più creative.
Gli ultimi venti minuti nella tana del killer, infatti, non sono incisivi e i colpi di scena presenti sono troppo facilmente intuibili dallo spettatore. E questo pesa come un macigno nell’intera economia del film.