Hank Palmer è un giovane avvocato di successo quanto uno splendido quarantenne strafottente che esercita tutto il suo fascino e tutta la sua arte oratoria a Chicago. La morte della madre, però, lo riporta in Indiana, il posto in cui è nato e in cui nessuno vuole andare. Quanto il rapporto con i due fratelli è buono tanto è pessimo quello con il padre Joe, il venerato Judge che la sera dei funerali della moglie incontra uno dei tanti spregevoli uomini che in 40 anni di carriera ha condannato. Nella perdizione del lutto e nella confusione di una malattia terminale, il giudice finisce per uccidere il malvivente. O forse no, ed è su questo dubbio che si innesta il dramma giudiziario diretto da David Dobkin, che vede coinvolti il premio oscar Robert Duvall nei panni di Joe e Robert Downey Jr. in quelli del figlio Hank.
Duvall è bravissimo nel disegnare i contorni di una figura eccessivamente autoritaria che si sgretola progressivamente in seguito alla morte della moglie e al crimine che potrebbe o non potrebbe aver commesso. Robert Downey Jr., invece, riesce a fatica a smettere i panni di Tony Stark/Iron Man e si produce in una sequela infinita di smorfie che, seppur adatte alle caratteristiche del suo personaggio, creano una fastidiosa sensazione di deja-vu che si attenua solo verso la fine del film.
The Judge sembra essere uno spartiacque nella carriera di David Dobkin: dopo film come Due cavalieri a Londra, 2 single a nozze o Cambio vita, il regista punta sul legal drama senza però riuscire a distanziarsi troppo dal registro da commedia che caratterizzava le sue precedenti opere. Se sul versante della commedia il film funziona molto bene, pecca invece su quello del dramma. La vicenda giudiziaria è stirata, tirata per le lunghe in modo talmente violento che in fase di sceneggiatura gli autori hanno dovuto infarcire il film di momenti comici a tratti fuori luogo e di sotto-drammi familiari di tutti i tipi quasi degni di una buona soap-opera. 150 minuti sembrano una parto cesareo e alla fine si esce dalla sala con la sensazione di aver assistito all’ennesima epopea americana che vorrebbe essere un romanzo di formazione.
Non fraintendiamo: il film è anche godibile fino a un certo punto, ma l’eccessiva durata, la regia senza alcun particolare guizzo, la sceneggiatura gonfiata di buoni sentimenti e una scelta musicale discutibile, rendono questo prodotto pomposo e lontano da quelli che dovevano essere (probabilmente) le intenzioni iniziali. Raccontare la crescita personale attraverso il confronto/scontro generazionale padre/figlio non è certo facile: si poteva, però, far tutto in metà del tempo che invece è stato impiegato per raccontarci, ancora una volta, quanto è bello e quanto è figo Tony Stark.