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The House that Jack Built

Si inizia con T. De Quincey e Freud, si finisce con Dante Alighieri. Film degli eccessi che risulta essere una provocazione fallita.

L’istrionico e folleggiante Lars von Trier, che, da una posizione atea e nichilista non ha mai nascosto una fascinazione con i vari Caino o Hitler, sceglie proprio un sadico serial killer come eroe della sua ultima opera, The House that Jack Built, presentata a Cannes e ora distribuita nelle sale italiane. Jack (Matt Dillon), un architetto nell’America degli anni ’70, si dirige verso un’ignota destinazione in compagnia di Virgilio (Bruno Ganz). Poiché il viaggio sarà lungo, è quasi impossibile non iniziare una conversazione. Infatti Jack si vanta ben presto, con la frenesia di un ermellino in un pollaio, di aver ucciso un numero difficile da quantificare di persone e decide di commemorare i suoi atti criminali descrivendone i 5 più creativi, oppure “incidenti” come preferisce chiamarli. La testimonianza sarà frammentata da discussioni che spaziano dalla musica di Glenn Gould, le poesie di William Blake, il nazismo e l’analisi del processo di fermentazione dei vini. Sono confidenze, confessioni, sfoghi, dialoghi privati dentro i quali ci si intrufola.

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Come Hercule Poirot, che, tra un’indagine e l’altra, si chiedeva se si potesse un giorno “ordinare un bel delitto come si ordina un pranzetto gustoso in trattoria”, il regista danese giudica gli efferati omicidi non secondo i parametri dell’etica, ma come una necessaria appendice che provoca piacere nel chi la compie e che soprattutto eleva l’esistere al vivere. Il delitto come un arte, l’arte di uccidere ad arte che porta alla sublimazione. La filmografia di Lars von Trier dopo Antichrist (2009) è costruita per vortici circolari che si sono innescati come uragani sull’oceano e trascinati uno con l’altro. Allora che cosa è questo The House that Jack Built? Una saggio di psicanalisi? Un’epopea? Pornografia? Una pernacchia? Una tragedia? Si diventa pazzi a voler cercare una risposta a questa domanda. Il film si presente come un racconto impacciato e scombinato, più auto-riflessivo di quanto si potesse prevedere, sull’ineluttabilità del vivere eternamente attorno a un perno, identificato nella narrazione cinematografica nel desiderio di uccidere, che si conficca nella vita di una persona, e la costringe a ruotare e ruotare fino alla sua totale dissoluzione.

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Il regista dirige con una prosa ritmica cupa come il suono di un tamburo, dirige con la penna dell’ossessione, ripete, ripete, ripete, i suoni e le azioni di una quotidiana follia che scendono giù come una pioggia di sangue, quella pioggia che infradicia tutto. A pensarci bene la messa in scena è sempre la stessa degli ultimi anni: riprese con steadycam così traballanti da chiedersi se si fosse rotto il sistema di ammortizzazione, intervallate da immagini che cercano di raggiungere il massimo livello del lirismo visivo. Il problema di The House that Jack built non sono tanto le grottesche e ultraviolente peripezie narrate o i controversi attacchi intellettuali, ma il non riuscire a dire e fare nulla di valore o di interesse con loro. Un sadismo vuoto dalle pretese ancora più vuote. Film degli eccessi che risulta essere una provocazione fallita. Inevitabilmente retorico, inevitabilmente comico, sinceramente noioso.

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