Michael Phillips del Chicago Tribune ha scritto: «Un film in sintonia con il dolce caos della vita». Una definizione complessa e apparentemente contraddittoria, tuttavia significativa per poter comprendere Synecdoche, New York. Esordio alla regia del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman (Se mi lasci ti cancello), il film riprende il periodo di fallimento personale del regista teatrale Caden Cotard, il quale viene sopraffatto dalla solitudine a mano a mano che terribili eventi irrompono inspiegabilmente nella sua vita, a cominciare da una malattia degenerativa e dall’abbandono della moglie. Ciononostante, decide di perseguire la sua più grande ambizione: mettere in scena la sua vita, compresi i luoghi e le persone che frequenta.
Caden è interpretato dal compianto e sempre straordinario Philip Seymour Hoffman: è un uomo estremamente buono, che ha un carattere troppo debole per affrontare tutto ciò che gli succede, ma possiede un grande talento per il teatro, che gli porta fama e successo. Caden non se ne fa niente di questa capacità, non finché non realizza l’opera per lui più importante e definitiva. In realtà Caden è un piccolo uomo sperduto in un mondo selvaggio, per il quale si prova molta compassione. Su queste basi Kaufman genera la prima ambiguità: è Caden a essere fuori dal mondo e quindi condannato alla solitudine oppure è il mondo che semplicemente gli marcia contro? Caden non si lamenta e non combatte contro quel mondo, accetta con rassegnazione gli eventi; soprattutto, soffre per un senso di solitudine che lo divora. Sfiora addirittura la follia quando prende piede il suo grande progetto, in cui attori interpretano le persone (ossia i personaggi del film), e di conseguenza altri attori interpretano gli attori, in un assurdo cortocircuito teatrale.
La storia di Caden non viene narrata con cadenza da melodramma, e chi conosce Charlie Kaufman lo dà per scontato: ritroviamo infatti le visioni (che sono quelle di Caden), le proiezioni di se stesso in contesti bizzarri, sulle quali permane il dubbio che non siano invece situazioni reali; il montaggio è disordinato e divagante, come accade anche nei suoi script inscenati da Michel Gondry e Spize Jonze. Il film appare insomma come una sorta di puzzle i cui pezzi devono essere riordinati dallo spettatore per creare il quadro della vita di Caden. Se fosse così, inizierebbe ad assumere senso il dolce caos della vita citato da Phillips.
Ciò che lascia disorientati guardando questo splendido affresco è l’assenza di ironia, per cui si distacca dai film di Jonze e Gondry: se si tralasciano alcune strambe visioni che possono strappare un sorriso, si scopre che Kaufman parla sul serio di quanto un uomo possa sentirsi solo e, da un punto di vista oggettivo, sfortunato. Kaufman dissemina molti indizi su come riordinare questo caos della vita e per questo il film necessita (e merita) una seconda visione, ma la sua bellezza, per quanto amara, è chiara fin da subito.