I Sudori freddi di Giancarlo Sepe
O la vertigine dell'ossessione
Vertigo (per noi italiani La donna che visse due volte) è il film più perverso di Alfred Hitchcok. Una perversione che va al di là dei colpi di scena di Psyco o degli spaventosi attacchi di Uccelli. In Vertigo si nasconde qualcosa di straniante, di luciferino. Il regista inglese prese la storia da un noir francese scritto a quattro mani da Thomas Narcejac e Pierre Boileau, D’entre les morts. Proprio i morti infatti sembrano essere i veri protagonisti della storia, quelli presenti e anche quelli che ritornano, in uno scambio d’identità disturbante, tale da non riuscire più a capire quale sia la vera realtà.
Dai personaggi di Narcejac e Boileau nasce lo spettacolo Sudori freddi portato in scena da Giancarlo Sepe e dagli attori della Compagnia Teatro La Comunità. Non si tratta di una trasposizione scenica del celebre capolavoro di Hitchcock ma, piuttosto, di un’ardita riscrittura teatrale basata su suggestioni e visioni sensoriali. Sepe ha vivisezionato il romanzo e il film portando a galla i lati più oscuri della vicenda. Primo tra tutti il tema del doppio, sottolineato da una scenografia a specchi (scene Carlo De Marino) e moltiplicato dalla coralità degli attori, gestiti come una sorta di ensemble e non solamente come personaggi.
Secondo punto chiave è la visione della realtà: sempre distorta, offuscata. Qui tutto è un’illusione, una “messa in scena” ben architettata che in realtà non esiste. Perfino la morte e la sua fascinazione si riscoprono irreali: di fatto, l’unico elemento concreto, vero, tangibile sulla scena è l’ossessione, ossessione per la ricerca di un ideale immaginato con estenuante volontà eppure inesistente.
Proprio attorno a questo tema ruoterà la vita di Flavières (Federico Citracca), il detective protagonista della vicenda. Egli infatti è ossessionato da Madeleine (Lucia Bianchi), moglie dell’amico Gévigne (Pino Tufillaro), il quale preoccupato per gli strani comportamenti della consorte, tendenti al suicidio, chiede all’ispettore di controllarla. Flavières ne rimarrà folgorato: un amore così intenso che poco a poco lo porterà a perdere il senso della realtà; Madeleine lo trascina verso un abisso oscuro, dove il reale è evanescente e si perde in un rito ciclico, in cui ritornano e si rincorrono azioni e battute.
Ciò che tiene in piedi questa composizione scenica così fragile è la musica (a cura di Davide Mastrogiovanni con estratti dalla colonna sonora di Vertigo, di Bernard Herrmann, e dal repertorio classico romantico), ma spesso anche quest’unica certezza viene disturbata, interrotta da distorsioni. Lanciati in questo caos gli attori devono fare di tutto per rimanere attaccati ai loro personaggi e lo fanno in maniera spasmodica, usando soprattutto il primo dei loro strumenti: il corpo.
La distorsione del reale contagia, insomma, anche la struttura drammatica della messa in scena: lo spettatore assiste alle peripezie di un protagonista che è innamorato di una donna la quale non è altro che un personaggio che egli stesso si è inventato. Tutto è proiezione di un desiderio irrealizzato.
Ecco che in questa visione si raccoglie tutta l’essenza della fruizione di un’opera d’arte. Ogni volta che andiamo a teatro, vediamo un film, posiamo gli occhi su quadro, o apriamo un libro, infatti, torniamo ad essere come gli abitanti mitici della caverna di Platone: uomini attaccati a una realtà che invece è finzione.
Ascolto consigliato
Teatro La Comunità, Roma – 28 ottobre 2015