Un uomo solo, ormai invecchiato, rinchiuso in se stesso, e un giovane o giovanissimo, spesso affacciato su una china pericolosa, comunque quasi sempre svantaggiato da assenze o presenze ingombranti in famiglia. Il romanzo di formazione raddoppiato e costruito sui rispecchiamenti, il giovane che si affaccia alla vita, il vecchio che reimpara ad assaporarne l’essenza. Quanto cinema americano recente, anche nobilissimo, rientra in questo schema? Dai più hollywoodiani titoli di Gus Van Sant (Will Hunting, Scoprendo Forrester), fino a Joe di David Gordon Green, per non parlare di Wes Anderson, dove la tematica della paternità è sempre centrale, anche negli ultimi Moonrise Kingdom e The Grand Budapest Hotel.
Rientra perfettamente in questo tipo di narrazione anche St. Vincent, opera prima di Theodore Melfi, confezione indie sotto l’egida del colosso Weinstein Company. In un angolo di Brooklyn che ancora resiste alla gentrificazione hipster vive Vincent (Bill Murray), come da manuale solitario custode della sua polvere, con la prevedibile dotazione di comportamenti antisociali (ancora loro, la santissima trinità bukowskiana: bourbon, cavalli, prostitute). Grazie alla nuova vicina, mamma single sufficientemente incasinata da affidargli il figlio preadolescente dal disperato bisogno di integrazione affetto e modelli, la trama si mette in moto, l’arco si compie, la santità si rivela tra nasi rotti per farsi buoni amici, lo spettro del Vietnam, l’economia del credito in dismissione, l’Alzheimer; non manca nemmeno la buona prostituta (Naomi Watts), come ne I Miserabili.
Il film, pur dotato di momenti riusciti e pregevole nella direzione degli attori, sarebbe davvero l’ennesimo trascurabile esempio di scarso coraggio nella scrittura, un nuovo film costruito da quella specie di generatore automatico di sceneggiature che è Il viaggio dell’Eroe di Vogler saggio/manuale che come un virus dell’omologazione ha ridotto Aristotele e Propp al livello del sottobosco hollywoodiano e dei nostrani storyteller baricchi made in Holden se non ci fosse Bill Murray come protagonista. Bill Murray non ha bisogno di recitare una parte del genere. Non deve modellare le proprie caratteristiche e la propria storia personale sui dettami di una sceneggiatura. Bill Murray non ha bisogno di recitare un declino, è l’Arte del Declino incarnata.
Per fare un parallelo immediato i due personaggi hanno lo stesso gatto e battono la testa in cucina svenendo sbronzi allo stesso modo Al Pacino, un grandissimo, carico di gloria e di eroismi cinematografici, alle prese con il Manglehorn di Green, ha dovuto lavorare di sottrazione, limitare le tirate eroiche, farfugliare, reprimere l’energia di un corpo cinematografico abituato a dominare le inquadrature, esaltare la sua parte più declinante, essere un se stesso agli ultimi fuochi. Bill Murray invece, unico e irreplicabile, è un ultimo fuoco che brucia tiepido ed eterno, la cifra umana assoluta della sconfitta, e da questo suo genetico destino a essere outsider, laterale, resiliente a ogni omologazione, trae una forza interpretativa enorme. Un film terribilmente innocuo e carino, con Bill Murray acquista immediatamente qualcosa di triste e vero.
Bill Murray è un rifugio nella tempesta, Shelter from the Storm.