Southeast Asian Cinema. When the Rooster Crows – Leonardo Cinieri Lombroso
È da anni che il cinema cerca di riordinare le tracce delle sue ultime (de)formazioni come delle sorgenti delle sue correnti. Ovviamente ora la bussola va spostata verso est (tra l’autorialità dell’estremo oriente e l’urgenza del medio). Sia fatto direttamente da autori, come l’interessantissimo Letters from the South (Aditya Assarat, Royston Tan, Midi Z, Tan Chui Mui, Tsai Ming-liang, Sun Koh), da addetti ai lavori come l’intimo The Kingdom of Dreams and Madness (Sunada Mami) o da curatori come lo splendido Flowers of Taipei – Taiwan New Cinema (Chinlin Hsieh). Questa volta a cimentarsi con questo ambiente è l’italiano Leonardo Cinieri Lombroso. Southeast Asina Cinema. When the Rooster Crows tenta ti dare voce all'espressione di una diversità che mira al cambiamento. Brillante Mendoza, Eric Khoo, Garin Nugroho e Pen-Ek Ratanaruaurang sono espressione quanto mai indipendente di tradizioni, etnie, lingue, idee politiche e religioni diverse. Quattro autori di un cinema alla strenua ricerca di un'entità più pura, dove la libertà di espressione diventa strumento politico attraverso il linguaggio.
Le interviste si rivelano quanto mai interessanti (soprattutto per un pubblico dalla non completa conoscenza di questo nuovo spaccato di cinema) e mostrano in modo chiaro quanto da uno stato di semi emarginazione questi autori siano giunti ad una certa ribalta, almeno nei festival internazionali quanto in piccole distribuzioni europee. Allo stesso modo però emerge ancora l'invadenza della censura, in prevalenza politica, la tensione alla commistione fra finzione e documentario, la volontà di raccontare per la costruzione di un'identità (e a volte addirittura di una Storia) e l’ampio uso dell’improvvisazione. La fusione di queste sfaccettature ha portato ad una particolarissima unitarietà di fondo, un linguaggio morale iper-neorealistico su cui poi si costruiscono le cinematografie nazionali, prima, e le esperienze autoriali, poi. Un realismo magico, il tentativo di una coesione universale di spirito e di contenuti, la presa di coscienza spinta dal desiderio fondante di filmare il reale, l’ordinarietà e la quotidianità senza filtri.
Proprio qui però forse sta una pecca del lavoro di Lombroso. Il descrivere un'esperienza così particolare ed imprevedibile (dalle parole stesse di Nugroho, probabilmente l’intervista più profonda) nata da un'urgenza anche sociale, non può essere strutturata in forme così precostituite e sicure. A differenza dell’umanissimo e fluttuante lavoro di Chinlin Hsieh su Taiwan, che proprio con il suo continuo movimento alla deriva riesce in maniera straordinaria a descrivere quell’esperienza, questo Southeast Asian Cinema rimane rinchiuso in un didatticismo di fondo che può sicuramente aiutare a conoscere ma non ad entrare in quella che è ora la Nouvelle Vague dell’Estremo Oriente. Sicuramente da vedere per la poliedricità dei punti di vista e per una nostalgica vena malinconica di fondo, non riesce però (almeno personalmente) a farti calare in un’esperienza che proprio del “salto nel vuoto” del cinema stesso ha trovato forza e vitalità. C’è da dire allo stesso modo che è estremamente difficile per un europeo, soprattutto, entrare in una dimensione così provvisoriamente identitaria e storica, e probabilmente il punto di vista di Lombroso sulle visioni degli autori è l’unico percorribile per chi non ha l’impriting di un luogo così remoto.